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19 maggio 2014

Focus on Syria, Troppi falsi miti sulla Siria

Un recente contributo della redazione di Focus on Syria fa un’analisi della situazione sul terreno del conflitto siriano, ipotizza possibili scenari e richiama alla responsabilità la comunità internazionale.

Sparita improvvisamente dalle prime pagine dei giornali, la guerra in Siria continua il suo tragico corso con la stessa intensità degli ultimi tre anni. Il regime ha guadagnato terreno attorno a Homs e dopo una campagna di sei mesi è riuscito a riprendere il controllo della regione strategica del Qalamoun, alla frontiera tra Libano e Siria (vedi articolo).

Ma nonostante le sue dichiarazioni di vittoria l’opposizione ha ripreso l’iniziativa ad Aleppo, fino al punto di minacciare di nuovo l’accerchiamento totale dei quartieri ovest, ed è riuscita a conquistare alcuni villaggi vicino alla costa a nord di Latakya, in una regione di importanza simbolica per il regime.

È difficile dire se gli sviluppi militari degli ultimi mesi corrispondano a una ripresa di controllo da parte del regime, come certi analisti propongono sempre più insistentemente, o soltanto a una ristrutturazione e semplificazione delle forze in campo e dei fronti. L’Esercito Libero Siriano e gli altri principali gruppi d’opposizione sembrano dare priorità al fronte del nord (Aleppo e Idlib) e al fronte del sud (Deraa e Quneitra) e in entrambe le zone hanno riscontrato dei successi di recente. Il regime ha invece concentrato la maggior parte delle sue forze nel recupero e il consolidamento dell’asse strategico Damasco – Homs – Latakya. Un’eventuale battaglia decisiva, se mai avrà luogo, sembra ancora lontana.

Il regime ha una potenza di fuoco altamente superiore e il monopolio esclusivo dell’aviazione; ma gli mancano le forze di fanteria necessarie a ricatturare e mantenere i vasti territori nelle mani dall’opposizione. Può decidere di riprendersi qualsiasi zona del paese, ma solo una alla volta. Una sua vittoria puramente militare appare difficile e molto lontana nel tempo. Per questo motivo, negli ultimi mesi la vera offensiva del regime si gioca sul piano del morale. La riconquista di poche zone-chiave, altamente mediatizzata, dà l’impressione di un’inesorabile ripresa di controllo. La moltiplicazione delle interviste con la stampa estera e delle visite di delegazioni ufficiali crea un’illusione di ritorno alla normalità.

Va letta in questa chiave la tenuta delle elezioni presidenziali ai primi di giugno. Chiamare al voto la cittadinanza in un paese tuttora in guerra, con tre milioni di rifugiati all’estero, sei o sette milioni di sfollati interni e metà del territorio sotto controllo nemico, potrebbe sembrare solo un’inutile farsa. Bashar al Assad conta però su questo vacuo simulacro di democrazia, dal risultato già noto in partenza, per rafforzare il sentimento di ineluttabilità della sua presenza; per convincere definitivamente i suoi sostenitori e anche qualcuno dei suoi stanchi avversari che lui è lì per restare.

Tutti i commentatori della crisi siriana si sono affrettati a giudicare i negoziati di pace morti e sepolti. È risultato chiaro che il regime siriano non ha alcuna intenzione di fare concessioni reali e che punta a stroncare la ribellione e a pacificare il paese a modo suo. Una scelta di realpolitik facile da comprendere, visto l’appoggio incondizionato dei suoi alleati stranieri, Iran e Russia in primis. Ciò che invece non è assolutamente chiaro, né accettabile, sono l’indifferenza e l’abbandono del processo di pace da parte delle potenze occidentali. Un vero dialogo, delle concessioni mutue e un governo transitorio di unità nazionale, per quanto difficili e improbabili, costituiscono forse l’unica soluzione che potrebbe rassicurare e soddisfare un sufficiente numero di cittadini siriani di entrambi i campi. Solo su questa base condivisa, in cui nessuno sia considerato perdente e si senta quindi minacciato, potrà essere ricostruita una Siria unita e vivibile. L’alternativa sono ancora dei lunghi anni di guerra e in seguito molti altri anni di instabilità, terrorismo strisciante, attentati e insurrezioni.

Il politologo Ziad Majed sulle pagine de L’Express smentisce un altro falso mito: “L’analisi secondo la quale la situazione attuale presenta una scelta da fare tra Assad e i jihadisti è falsa, naïf, o addirittura deliberata per giustificare « l’opzione Assad ». La realtà sul terreno e l’evoluzione della situazione in Siria mostrano che siamo piuttosto di fronte alla seguente equazione: o Assad e i jihadisti insieme, uno giustificandosi grazie alla barbarie dell’altro con i due campi capaci di « coesistere » e d’occupare ciascuno una regione, o la caduta di Assad e poi quella dei jihadisti che perderebbero in questo modo ogni possibilità di reclutamento, isolati sul terreno e anche nella società.”

È insomma tempo che la comunità internazionale si assuma le sue responsabilità e metta un termine alla guerra civile siriana, attraverso un processo negoziato e una soluzione di compromesso che sia accettabile per gran parte della popolazione. Il prolungamento della crisi in Ucraina non deve far cadere la Siria nel dimenticatoio per altri lunghi mesi. I governi occidentali devono essere pronti a forzare entrambi i campi, se necessario, ad effettuare i compromessi necessari, con o senza l’approvazione della Russia. Accontentarsi di inviare degli aiuti umanitari, peraltro insufficienti, e assistere in silenzio all’autodistruzione di un paese è una vergogna di cui nel ventunesimo secolo il mondo non dovrebbe più macchiarsi. La priorità è terminare la guerra: non fra tre o cinque anni, ma adesso.

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