Focus on Syria
24/05/2014

La caccia spietata agli umanitari in Siria

Un gruppo di operatori umanitari, attivo in Siria in maniera clandestina da quasi tre anni, denuncia la repressione da parte del regime siriano di ogni forma di aiuto indipendente e critica gli ostacoli burocratici imposti dai donatori istituzionali. Ripubblichiamo qui la loro lettera aperta e invitiamo i nostri lettori a diffonderla.

Lettera aperta ai donatori
un gruppo di operatori umanitari costretti all’anonimato

Noi, operatori umanitari all’interno della Siria,

Noi, volontari di tutte le fedi impegnati al fianco dei più vulnerabili,

Noi, uomini e donne sprofondati nell’anonimato per delle ragioni di sicurezza,

Noi, militanti sul campo condannati alla clandestinità per proteggere le nostre vite e quelle delle nostre famiglie e dei nostri amici.

Noi, infine, che stiamo accanto ai diseredati senza distinzione d’appartenenza confessionale o etnica.

E noi, siriani e non siriani anonimi ma attori importanti dell’assistenza umanitaria, abbiamo fiducia nella capacità dei nostri donatori, la maggior parte dei quali sono al nostro fianco sin dall’inizio, a uscire dal sentiero tracciato e altamente burocratico per sostenere il nostro impegno accanto a una popolazione martire nel momento in cui il regime siriano continua a invocare dei pretesti per impedire che gli aiuti internazionali siano distribuiti in maniera indipendente ed efficace.

Proprio per questo vogliamo attirare l’attenzione dei nostri donatori istituzionali sull’esistenza di un grosso divario tra le loro esigenze in termini di documentazione amministrativa richiesta a giustificazione dei fondi ricevuti, e la realtà mortifera del terreno in cui gli attori umanitari sono criminalizzati e perseguiti in maniera spietata.

Così ad esempio, nelle regioni sotto controllo del regime, quando corriamo sotto i proiettili dei cecchini per portare del cibo o quando rischiamo la vita nell’attraversare un posto di blocco con un sacco di riso di troppo, a volte ci vengono richiesti tre preventivi per poter giustificare un acquisto.

Quando i commercianti amici rifiutano di darci lo scontrino o la fattura per paura delle inevitabili rappresaglie, alcuni contabili occidentali ci impongono di rimborsare la spesa non giustificata.

Dovremmo forse rinunciare a salvare delle vite per mancanza di fatture?

Quando troviamo un alloggio disponibile, generalmente in condizioni pietose, ma il proprietario rifiuta di firmare un contratto o di rilasciare una ricevuta, per potersi sbarazzare più facilmente di una famiglia o per poter aumentare l’affitto a sua discrezione.

Dovremmo forse lasciare le famiglie per strada, per mancanza di un contratto d’affitto o di una ricevuta? Dovremmo forse pagare l’affitto e poi lasciare la famiglia morire di fame perché i fondi ricevuti non sono destinati a comprare del cibo?

Durante l’assedio di una città o di un quartiere, bisogna corrompere un posto di blocco per salvare centinaia o migliaia di vite, oppure bisogna obbedire alle istruzioni dei donatori istituzionali che rifiutano ogni atto di corruzione, abbandonando in questo modo gli assediati alla malnutrizione e alla malattia?

Bisogna rinunciare a comprare del latte in polvere per i neonati le cui mamme non hanno più latte perché i donatori hanno firmato delle convenzioni che incoraggiano l’allattamento al seno?

Veniamo arrestati, ad esempio, per aver trasportato una lista di famiglie su una chiave USB o per essere passati di nuovo a verificare se le famiglie beneficiarie del nostro aiuto, già cinque volte sfollate, sono ancora lì, perché il nostro finanziatore vuole che seguiamo sempre le stesse famiglie, anche nelle zone bombardate.

Veniamo torturati, prima di tutto perché lavorare nel settore umanitario significa aiutare i “terroristi”, inoltre perché i nostri finanziamenti vengono dall’estero e ciò costituisce la prova della nostra “collusione con le potenze straniere”. Veniamo torturati anche per sapere chi sono i dirigenti dell’organizzazione, i responsabili degli acquisti, i responsabili finanziari. I nostri aguzzini devono stabilire da dove viene “il denaro che sostiene i terroristi”.

Veniamo torturati per denunciare le famiglie beneficiarie dell’assistenza umanitaria, per rivelare i luoghi in cui distribuiamo gli aiuti (coperte, cibo, carburante, etc.). Le attività nel settore dell’educazione e del sostegno psicosociale sono considerate dal regime come una circostanza aggravante nell’atto d’accusa.

Diverse associazioni locali sono obbligate a interrompere il loro lavoro sul campo

Infine, il nostro vero atto di eroismo sotto la tortura, non è di ricordarsi dove abbiamo nascosto le fatture per il donatore, ma è di non tradire il nome dei nostri colleghi.

La violenza delle pressioni e della repressione è tale che in diversi casi delle associazioni locali, che erano molto attive nel settore umanitario, hanno smesso di lavorare (ad esempio ad Aleppo le associazioni Ahl el Kheir et Min Ajl Halab). Un’associazione molto presente nella regione di Damasco dall’inizio del 2014 ha perso più di sei collaboratori, tra cui tre dottori.

Le nostre reti, le nostre associazioni, sono prima di tutto fondate sulla fiducia. Conosciamo tutti i nostri partner nel lavoro sul campo, o grazie dei legami personali di vecchia data, o attraverso delle strutture caritative e istituzionali. Questo è un importante fattore di successo nel lavoro umanitario, in un periodo in cui il regime siriano cerca di infiltrare le reti d’aiuto informali per poterle distruggere.

Nei settori dominati dal regime, preferiamo utilizzare un’organizzazione ricalcata sul modello dei grandi movimenti di resistenza dei paesi sotto occupazione, come la resistenza francese nel periodo 1940-1945, con la creazione di cellule chiuse in modo tale che la caduta di una cellula non comporti la caduta dell’intera rete.

Gran parte degli aiuti umanitari internazionali sono dirottati a profitto del regime

Oggigiorno, di fronte agli occhi di tutti, gran parte degli aiuti umanitari internazionali sono dirottati a profitto del regime, che ne rivende una certa parte e ne distribuisce un’altra parte ai suoi sostenitori, già ampliamente appoggiati (ad esempio, nel quartiere di Bab Touma a Damasco il regime organizza delle distribuzioni settimanali di cibo).

Oggigiorno, quando i veri operatori umanitari, alla testa di associazioni impegnate, sono costretti alla clandestinità, bisogna riconoscere – e il mondo glielo deve – che essi rappresentano il miglior canale d’accesso alle popolazioni vulnerabili e la garanzia che ogni euro di finanziamento è ben utilizzato.

Noi, volontari dell’azione umanitaria impegnati a fianco del popolo siriano nella sua tragedia, chiediamo ai donatori istituzionali di accordarci la fiducia totale che i nostri sacrifici e i nostri colleghi sacrificati giustificano e che le circostanze rendono indispensabile. Gli chiediamo di assegnarci dei fondi flessibili che potremo utilizzare in funzione dei bisogni sul campo: qui degli affitti, là del latte in polvere, altrove il pagamento di un parto cesareo o il cibo per una famiglia di sette persone.

Sappiamo già che nella storia del lavoro umanitario, la guerra generata dalla crisi siriana del 2011 costituirà un momento storico grazie alle discussioni e le riflessioni che essa sta provocando sulle diverse maniere di portare assistenza.

Siamo sicuri che i nostri donatori sanno che la guerra siriana, nella sua terribile particolarità, chiama a una revisione drastica delle metodologie del lavoro umanitario.

Siamo sicuri che i nostri donatori sapranno dare fiducia agli uomini e alle donne di Siria che lavorano nel settore umanitario mettendo a rischio la loro vita, in modo tale che domani i giovani siriani possano partecipare alla costruzione di una Siria libera, multiconfessionale e democratica!

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