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Martedì 13 gennaio 2015

Africa, terra fertile del terrore
di Angelo Ferrari

Il terrorismo si innesta sui contenziosi locali irrisolti. Ecco uno degli elementi che accomunano l’escalation di violenza che si sta vivendo nel continente. Laddove manca una risposta politica lungimirante e globale, il radicalismo islamico attecchisce. È mancata l’intelligenza politica. L’intervista a Mario Raffaelli vicepresidente internazionale di Amref Health Africa.

L’offensiva del Califfato nigeriano si intensifica, compie, anche se è drammatico sostenerlo, un salto di qualità arrivando a utilizzare bambine innocenti imbottite di esplosivo per compiere massacri di una ferocia mai vista. 
Un’escalation che, non a caso, è iniziata proprio a  ridosso delle elezioni che in Nigeria si terranno a febbraio. Mario Raffaelli, vicepresidente internazionale di Amref Health Africa e presidente della sezione italiana, ma anche persona che ha seguito i processi di pace come rappresentante del governo italiano in varie aree del mondo, in particolare nel Corno d’Africa, ci spiega che il punto «è se queste elezioni avranno un significato, se ci sarà un cambio di passo, oppure non cambierà nulla», vanificando ogni possibilità di portare la pace in Nigeria.

Raffaelli è convinto che il «terrorismo cresce e si sviluppa in territori resi fertili dalla mancanza di una risposta politica lungimirante e globale. Il radicalismo islamico trae origine dalle situazioni di conflitto e prospera grazie alle crisi sociale, economica e di identità del mondo arabo e musulmano, che ha visto via via fallire tutte le ipotesi di modernizzazione, dal socialismo nasseriano, alle democrazie autoritarie sostenute dall’occidente. Questo processo degenerativo sta ormai contagiando molti paesi africani, attraverso le consistenti comunità musulmane che li vivono. C’è disillusione per il fatto di non vedere un futuro pur avendo avuto un grande passato».

Esistono, secondo Raffaelli, elementi comuni tra le varie crisi africane e «ciò che unisce il Mali, la Nigeria, il Centrafrica, la Somalia e lo Yemen, la Libia e la Siria è il fatto che sui contenziosi locali si innesta l’elemento terrorista. Inizialmente anche Boko Haram non mostrava questo grado di violenza, ma ha avuto una grandissima capacità di sfruttare i contenziosi locali. In tutti questi casi i movimenti islamici, all’inizio della loro contestazione non erano caratterizzati da un grado particolare di violenza. Le componenti radicali più violente e terroristiche hanno preso piede progressivamente, di fronte all’incapacità, anche da parte occidentale, di favorire processi di transizione verso situazioni di maggiore giustizia e stabilità».

L’Europa, nonostante il massacro di Parigi, sembra non essere lo scenario centrale, «certo è una crisi che non risparmia anche larghe porzioni di immigrati nei nostri paesi. Ma vi è stato un rovesciamento di prospettiva rispetto a Bin Laden, dove prima si colpiva il nemico lontano e poi quello vicino. Ora vi è una concentrazione sul nemico vicino e nel sottofondo vi è quello lontano».

A 13 anni dall’11 settembre, dall’inizio della “guerra globale al terrorismo” la situazione, anziché migliorare sembra essere peggiorata, si è progressivamente aggravata. «Come appare oggi incontestabile, la sola risposta militare è inutile, quando non addirittura controproducente. Fino al punto che, oggi, rischiamo focolai di guerra nella stessa Europa».
È del tutto evidente, quindi che i processi di modernizzazione debbano «essere interni, la risposta deve nascere all’interno del mondo islamico». È altrettanto incontrovertibile oggi, dato lo scenario di fronte al quale si trova il mondo, che «vanno disinnescati conflitti esistenti e potenziali. Ciò va fatto unendo alle armi dell’intelligence militare quelle dell’intelligenza politica, sostituendo alla semplice repressione la soluzione dei conflitti».

È però altrettanto vero che oggi vi è tanta intelligence militare e poca intelligenza politica. «Una terza via – prosegue Raffaelli – oltre al sostegno a dittature amiche e agli interventi militari diretti, deve essere possibile, come dimostra il caso della Tunisia. Lo sforzo della comunità internazionale deve essere quello di fornire sostegno ai gruppi tolleranti, democratici, che accettano un’ipotesi di convivenza pacifica delle diverse culture e religioni, con una strategia globale capace di affrontare con una visione unitaria i problemi aperti in Medio Oriente, nel Corno d’Africa e nel Shael».

Occidente, dunque Europa, ma questa non fa altro che balbettare. «Un tempo si diceva: Europa gigante economico e nano politico. Ora non è nemmeno più un gigante economico. Tuttavia ci vuole un’Europa gigante politico, protagonista sulla scena globale». 
La Libia, tuttavia, dimostra altro. «Certo – conclude Raffaelli – pensiamo alla Libia dove vi è stato un intervento militare sparso che ha destabilizzato tutto, senza un’idea di cosa sarebbe potuto succedere, senza un’idea di futuro. Oggi il rischio è quello di avere una Somalia alle porte dell’Europa».

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