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Lunedì 28 settembre 2015

 

Se il Burkina vale cinque righe

 

I paesi ai confini meridionali del Sahara, come il Burkina Faso, sono diventati un punto focale per l`Italia e vanno aiutati con decisione. Da lì, infatti, partono i flussi migratori verso l`Italia» (...). «È come se i confini dell’Italia si siano spostati verso sud. I paesi che si affacciano sul Mediterraneo sono soltanto “di passaggio”. Noi, invece, dobbiamo intervenire direttamente dove ci sono le crisi: siccità, profughi, traffi ci, come in Burkina Faso».

Sono parole di Andrea Riccardi, rilasciate il 28 luglio 2012 da ministro della cooperazione del governo Monti, in una sua visita a Ouagadougou. Due mesi dopo, il 1° ottobre 2012, il fondatore della Comunità di sant’Egidio porta a Milano il presidente del Burkina, Blaise Compaoré, per la “prima” del Forum della Cooperazione italiana. E anche lì, dopo aver omaggiato l’ingombrante ospite, il ministro ribadisce: «La presenza del presidente del Burkina Faso, e la ripresa della cooperazione con quel paese, è prova che delle novità possono essere realizzate. Sono convinto che il Burkina Faso e l’Italia siano quasi paesi “frontalieri”, accomunati nella lotta per la stabilità dell’area del Sahel e del Sahara, nella lotta ai trafficanti di uomini e merci illegali». Per rafforzare l’impegno italiano in quel paese, Roma decide di riaprire, in quegli stessi giorni, gli uffici della cooperazione.

Sono trascorsi appena tre anni (anche se è una era geologica ai tempi dell’informazione istantanea dei social media). Ma l’Italia che ne sa oggi del “paese degli uomini integri”, raccontato come fondamentale per la “sorte” della nostra nazione anche da figure come Romano Prodi? Poco o nulla. La Stampa, la Repubblica e Corriere della Sera, il 18 settembre scorso, hanno annunciato ai loro lettori, in pochissime righe (il quotidiano di Torino, addirittura, in 5), che un colpo di stato militare aveva deposto (e messo agli arresti) il presidente ad interim e il primo ministro, alla guida di un governo di transizione che avrebbe dovuto portare il Burkina alle elezioni l’11 ottobre.

Che è successo prima? Che significato attribuire a questo putsch, finito poi con la destituzione dei golpisti una settimana dopo? Che fine ha fatto l’ex dittatore (amato dagli italiani) Compaoré? Quali le sue responsabilità? Ed essendo il Burkina considerato da molti analisti, anche italiani, tra le principali passerelle per i migranti che aspirano alla fuga verso il Nordafrica e poi l’Europa, quale scenario poteva aprirsi se il golpe non fosse stato messo in crisi dalla volontà popolare?

Tutte domande le cui risposte sono lasciate alla fantasia o alla buona volontà dei lettori dei principali quotidiani italiani. Molti dei quali, probabilmente, neppure sanno che esiste quel paese o dove si trova sulla cartina geografica.

Perché ci siamo dilungati così tanto sul caso Burkina? Perché – al di là delle responsabilità delle élite occidentali e africane nell’aver chiuso gli occhi di fronte a quello che sta accadendo – rappresenta plasticamente il deficit di conoscenza con cui affrontiamo quotidianamente le “emergenze”, che finiscono poi per bussare alla nostra porta di casa e che governiamo solo con il panico.

Nella Caoslandia in cui viviamo, ogni giorno rimbalzano dai media immagini drammatiche di flussi enormi di persone che si accalcano ai confini dell’Europa. Immagini, con il loro carico di dolore, la cui potenza ha modificato la percezione del fenomeno: forse, oggi, ci sono meno sostenitori dell’edilizia muraria e di un mondo di fi lo spinato alla ungherese.

Ma è altrettanto vero che quelle immagini rischiano di atrofizzare la nostra capacità di comprendere quello che realmente sta accadendo. Nella testa di molti di noi ci sono ancora percezioni distorte, figlie della vulnerabilità emotiva con cui affrontiamo la realtà. Ci “accontentiamo”, nel migliore dei casi, di archiviare la stagione della refrattarietà al migrante. L’accoglienza, forse, non è più un tabù e, forse, le avanguardie dell’apartheid non mieteranno i temuti successi elettorali. Ma le risposte emotive non bastano, perché rischiano di diventare un alibi per non dover vedere il resto. Ci diciamo: milioni di africani scappano per fame; per mancanza di opportunità; per guerra. Vero. Queste risposte, tuttavia, sono ormai diventate delle cantilene. Le ripetiamo all’infinito come fossero slogan. Ma le ragioni di chi fugge ora dal Burkina Faso non sono le stesse di chi scappa dall’Eritrea. Il rifugiato eritreo ha una storia diversa dal rifugiato siriano.

Non voler conoscere o riconoscere la specificità di ogni singolo contesto significa abdicare in partenza al tentativo di trovare le responsabilità di quel che accade in quel paese e, di conseguenza, lasciare impuniti i silenzi e le complicità. Anche le nostre.

La verità è che non esistono muri che possano impedire agli esseri umani di avere aspirazioni; ma sarebbe insoddisfacente, comunque, esaurire il nostro compito pensandoci solo come acefali luoghi (o persone) di accoglienza. Rinunciando in partenza alla possibilità di capire, per poi agire per il cambiamento. Come il caso Burkina Faso insegna.

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