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Mercoledì 01 luglio 2015

 

Ramadan snaturato dal terrore

di Andrea de Georgio

 

Anche in Mali il mese del digiuno sacro, uno dei pilasti della religione islamica, non è iniziato nel migliore dei modi, guastato dalla minaccia jihadista. Formazioni terroristiche vecchie e nuove hanno recentemente compiuto attacchi in tutto il paese, dimostrando di poter agire anche nel sud fino ad ora rimasto fuori dalla violenza.

 

Centrifugato nella schizofrenia collettiva contemporanea dello scontro fra civiltà perfino il mese sacro del Ramadan, uno dei cinque pilastri dell’Islam, ha cambiato radicalmente significato. Quello che negli intenti degli antenati e delle Scritture doveva diventare il periodo di digiuno in cui i ricchi avrebbero vissuto in prima persona la condizione d’indigenza dei diseredati, è diventato oggi, nella crisi identitaria globale che stiamo vivendo, un simbolo della recrudescenza del jihadismo combattente.

Anche in Mali, come altrove nel mondo, questo Ramadan pare essere cominciato sotto i peggiori auspici. Nella frontiera subsahariana della lotta al terrorismo neo-jihadista, formazioni vecchie e nuove che si richiamano ad Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb Islamico) hanno catturato l’attenzione con attacchi sporadici e diffusi non più confinati alle sole regioni settentrionali. Nello scorso fine settimana, infatti, le bandiere nere saheliane hanno sventolato a Nara (sabato), nel centro del paese, e a Fakola (domenica), nella regione di Sikasso, a soli 300km a sud di Bamako, nella stessa zona dove il 10 giugno era stata attaccata la località di Misséni, non lontano dalla frontiera con il Burkina Faso e la Costa D’Avorio. A Misséni, Nara e Fakola dopo una prima disfatta l’esercito maliano ha recuperato posizione grazie all’arrivo di rinforzi e al ripiegamento strategico degli assalitori. L’elemento sorpresa è l’asso nella manica che garantisce la riuscita, anche se effimera, di questi attacchi di guerriglia asimmetrica. A una settimana dalla firma della pace fra il governo del Mali e i ribelli (soprattutto) tuareg del nord - come il Coordinamento dei Movimenti dell’Azawad (Cma) che ha deciso di firmare gli Accordi di Algeri solo il 20 giugno, un mese dopo gli altri - è la componente più marcatamente jihadista dei gruppi armati saheliani che riemerge dal torpore per ribadire la propria presenza e pericolosità sul terreno.

La presa di Nara, a 50km dalla frontiera con la Mauritania da dove pare siano arrivati rinforzi ai jihadisti, è stata rivendicata dal gruppo Ansar Addin, una vecchia conoscenza del conflitto maliano in corso da più di tre anni. La dissidenza islamista dell’Mnla (il Movimento nazionale di Liberazione dell’Azawad), cuore dell’irredentismo tuareg nel nord del Mali, guidata da Iyad Ag Ghali (nella foto) e dal 2012 vicina alle posizioni di Aqmi, ha dichiarato la presenza di diversi mezzi e uomini (pare un’ottantina) della propria organizzazione nella zona di Nara già qualche giorno prima dell’attacco che ha causato circa venti morti soprattutto fra i ribelli. L’obbiettivo concreto, come nel caso di Misséni e Fakola, erano i militari maliani, le basi e gli edifici pubblici. Il principale nemico del jihadismo saheliano rimane quello “vicino”, lo Stato centrale, insieme ai caschi blu dell’Onu e agli stranieri della capitale (vedi attentato di Bamako a marzo), piuttosto che quello “lontano”, la Francia o l’Occidente.

Difficile cogliere, invece, l’obbiettivo politico di tali operazioni mordi-e-fuggi nel sud del Paese. A Fakola domenica mattina all’alba sono entrati in una ventina in moto e a piedi, secondo i racconti degli abitanti del villaggio, recitando versetti del Corano e sparando in aria all’impazzata. Nessuno è stato ferito. I 5 militari di stanza a Fakola si sono dileguati ai primi colpi. «Hanno detto di voler applicare la sha’aria e di non voler fare del male a nessuno. Erano armati fino ai denti, ma non ci sono stati scontri con l’esercito. Appena entrati hanno saccheggiato e bruciato la gendarmeria, il comune, le banche e l’Agenzia delle acque e delle foreste, issando sulla sede del comune una bandiera nera con la scritta “AnsarAddin-Sud”».

Il particolare rivela una nuova sigla, finora sconosciuta nel Sahel: AnsarAddin-Sud, che potrebbe voler dire la branca del gruppo di Iyad Ag Ghali attiva nel sud del Mali e alleata, secondo quanto dichiarato nella rivendicazione dell’attacco di Nara, ai peul del Fronte di Liberazione di Macina (Flm) di Amadou Diallo detto Amadou Kouffah. Questo gruppo armato che si rifà all’Impero Peul di Macina fondato da Sekou Amadou a colpi di jihad nel 1819, è balzato alle cronache del conflitto maliano negli ultimi mesi quando ha cominciato a razziare villaggi e distruggere mausolei patrimonio dell’Umanità nella regione di Mopti e Djenne, fulcro originario dell’antico Impero. Anche dietro all’attacco di Misséni, il primo a sud del Mali, ci sarebbe la mano dei peul dell’Flm, che stanno sempre più caratterizzando etnicamente un conflitto originato da ben altri interessi.

E la Francia non interviene? No, la Francia ha ormai adottato una strategia legata principalmente a operazioni d’intelligence con droni di ricognizione e a missioni mirate delle forze speciali di Barkhane, il dispositivo saheliano francese di 3mila uomini che, al fianco di Africom (Usa), dall’estate scorsa è dispiegato in 5 Paesi della regione: Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad. I vertici militari di Barkhane preferiscono lasciare dirimere queste scaramucce all’esercito maliano (in parte formato dall’Ue) e dalla Minusma, senza fornire all’alleato africano nemmeno una copertura informativa circa i movimenti dei jihadisti.

Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dal canto suo, ha appena rinnovato di un altro anno il mandato della Minusma, la missione di stabilizzazione più costosa in termini di perdite di caschi blu (40) dopo quella in Somalia. Il contingente Onu in Mali è dispiegato in gran parte del nord oltre che nella capitale Bamako con un totale di più di 10mila effettivi, ma questi avvenimenti violenti al centro e al sud del paese lo colgono impreparato.

E in queste sabbie mobili, come una ciliegina sulla torta mediatica, viene pubblicato un nuovo video di Aqmi, scovato dal Telegraph. Lo stile non è più quello semplice e basilare mutuato da Al Qaeda (bandiere sullo sfondo e mujahiddin che proclamano attorniati dai kalashnikov) ma è copiato fedelmente dal nuovo incontrastato primato comunicativo del sedicente Stato islamico (Is): una sorta di film. Nelle immagini appare un omone con una tunica mimetica e un passamontagna nero. S’intravede una carnagione scura. In un inglese perfetto sporcato da un marcato accento britannico interroga e minaccia due prigionieri: il sudafricano Stephen McGowan e lo svedese Johan Gustaffson, rapiti da Aqmi in un hotel a Timbuctu nel novembre 2011, fra gli ultimi ostaggi del Sahel, merce di scambio di un gruppo che evidentemente ha bisogno di batter cassa. «Benvenuti nel carcere più grande del mondo - esordisce nel video l’omone - una prigione senza limiti, una prigione che non possiede muri, senza cellule, senza sbarre. Una prigione che incute timore, da dove evadere è impossibile. Questa è la prigione dei mujahiddin, il Sahara».

Ed ecco che con lui, già ribattezzato dalla stampa mondiale “il nuovo Jihadi-John”, ricompare la paura, come uno specchio distorcente di noi stessi. Un accento british pulito, il passamontagna che potrebbe nascondere qualunque volto, la minaccia che viene da lontano, da un altro che a volte ci assomiglia fin troppo e a volte ci pare solo un frutto marcio della deviazione e del degrado a cui non prestare attenzione.

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