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4 agosto 2015

 

Energia pulita: Obama contro il carbone, in Italia sussidi per 4,02 miliardi di dollari l’anno

di Luca Aterini

 

Negli Usa la seconda industria carbonifera del Paese ha dichiarato bancarotta

 

Il Piano per l’energia pulita a marchio Obama è stato appena pubblicato dall’Epa, l’Environmental Protection Agency degli Stati Uniti; l’annuncio del Clean power plan, poche ore prima, è stato preceduto da quello dell’Alpha Natural Resources. Ieri mattina il secondo più grande produttore statunitense di carbone ha dichiarato bancarotta, schiacciato da un debito di 3,3 miliardi di dollari.

Può essere un caso, ma è certo che nei prossimi mesi e anni arriveranno altre notizie di questo tenore. Il Clean power plan, un documento di portata storica per una realtà come quella statunitense, prevede una riduzione dei gas serra emessi dalle centrali per la produzione di energia elettrica del 30% entra il 2030, rispetto ai livelli del 2005. Questo l’obiettivo federale, declinato per ogni stato a stelle e strisce; ognuno di loro potrà decidere come raggiungere il target, ma il Piano spinge l’acceleratore sulla chiusura delle centrali a carbone (il combustibile fossile in assoluto più impattante) e la produzione di nuova energia da fonti rinnovabili.

Secondo Gina McCarthy, il direttore dell’Agenzia per la protezione ambientale Usa, applicare il piano comporterà in totale investimenti per 8,4 miliardi di dollari, ma con un ritorno fino a sei volte più ampio: in totale i benefici attesi oscillano dai 34 ai 54 miliardi di dollari. Evidenti anche i guadagni in termini di salute:  McCarthy stima che il Clean power plan possa evitare fino a 3.600 morti premature (il 90% in meno di quelle dovute alle emissioni), 90mila attacchi d’asma nei bambini, 1.700 ricoveri ospedalieri in meno e 300mila giorni d’assenza da scuola e lavoro per malattia.

Non sarà un percorso facile da percorrere, ma il Piano appena varato rappresenta una delle più decisive eredità politiche del presidente Obama, che è riuscito a far valere la sua leadership in un Paese dove gli scettici del cambiamento climatico sono una parte rilevante dell’opinione pubblica e della classe politica. Allo stesso tempo, il Piano è riuscito a cogliere la domanda di cambiamento che arriva da un’altrettanto vasta fetta di cittadini e imprese. Non a caso, per un’azienda che chiude – l’Alpha Natural Resources –, altre 365 (colossi come Adidas, Ceres, eBay, Unilever, L’Oreal) hanno scritto una lettera ai governatori degli Stati federati, appoggiando il Piano del presidente Obama. L’onda del cambiamento verso un’economia a più basso tenore di carbonio sta già montando, e cavalcarla significa riuscire a coglierne anche i più importanti ritorni economici.

La posta in gioco è talmente alta che a essere penalizzata è addirittura, come sottolineato dal Financial Times, l’industria dello shale gas, protagonista dell’economia americana negli ultimi anni. Rispetto alle prime bozze del Clean power plan, Obama ha ridotto il ruolo del gas come fonte energetica di transizione, in favore di una maggiore spinta all’efficienza energetica e alle energie rinnovabili: rispetto al 2008, tra 15 anni la potenza eolica installata negli Usa sarà cresciuta del 300%, quella fotovoltaica del 2000%.

Si tratta non solo di obiettivi numerici, ma di una visione politica per contrastare i cambiamenti climatici e creare nuove opportunità economiche. Visione un tempo protagonista in Europa, che adesso si è messa a coda, nonostante rappresenti ancora oggi la fetta di economia più pulita tra i giganti del mondo, Usa e Cina compresi.

Il caso italiano è emblematico di questa frenata: le energie rinnovabili rappresentano ormai il 43,3% (circa 56,8 TWh) della produzione di energia elettrica nazionale e il 37,1% dei consumi elettrici, ma il governo Renzi ha iniziato a remare al contrario e dare nuovo sfogo alle trivellazioni petrolifere. Il famoso Green act, annunciato ormai sette mesi fa, se esiste è ancora ben chiuso all’interno di qualche cassetto. La bozza di decreto per gli incentivi alle fonti rinnovabili non fotovoltaiche privilegia zuccherifici e inceneritori, mentre il Collegato ambientale (alla legge di Stabilità 2013…) muffisce ancora nelle aule parlamentari, con il suo – pur modesto – carico innovativo per quanto riguarda la promozione delle materie prime seconde, tema tradizionalmente e incomprensibilmente ignorato in ambito politico.

Anche per quanto riguarda il carbone (sono ancora molte le centrali sul territorio) l’Italia non brilla. Glissando sul feeling col petrolio, il premier Renzi ha dichiarato che «oggi il nostro nemico è il carbone». Ma secondo i dati recentemente diffusi dal Fondo monetario (in allegato), l’Italia sussidia ancora il carbone con 4,02 miliardi di dollari l’anno, lo 0,19% del Pil: come se ogni italiano versasse di tasca sua 66,68 dollari (circa 60 euro). Considerando le altre fonti fossili, tali sussidi salgono a 220,32 dollari procapite, 13,27 miliardi (lo 0,62% del Pil). Secondo Legambiente i sussidi, tra diretti e indiretti, sono ancora di più e ammontano a 17,5 miliardi di euro nella sola Italia. Nel mondo toccano i 5,3 trilioni di dollari, il 6,5% del Pil globale e l’1,1% del Pil statunitense: Obama ha iniziato la sua crociata, ma il Paese finanzia ancora l’industria carbonifera con 633,08 miliardi di dollari l’anno. Se ancora ci fossero dubbi sul dove trovare le risorse per promuovere la riconversione ecologica dell’economia, negli Usa e altrove, i numeri parlano chiaro.

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