luglio agosto 2015

 

Bozza di appello per la realizzazione di un progetto di missione di salvataggio dei naufraghi nel mediterraneo come gestione civile di un conflitto

 

La nostra associazione, l’IPRI-Rete  CCP (Istituto di Ricerche per la Pace Italiano – Rete Corpi Civili di Pace), è composta di varie organizzazioni che, singolarmente, o in gruppo, od anche collettivamente, operano nel nostro, ed in vari  paesi del terzo mondo, per prevenire i conflitti armati cercando di trasformare  i conflitti violenti in conflitti di tipo nonviolento, formando anche quadri per l’azione diretta nonviolenta, ed aiutando le popolazioni che usano la nonviolenza per l’acquisizione dei loro diritti attualmente negati,  a riequilibrare  la loro situazione in modo da poter  confrontarsi alla pari, e dialogare, con i loro oppressori,  cercando con loro la soluzione ai problemi che hanno portato alla situazione inadeguata nella quale si trovano a vivere. In questo c’è anche l’aiuto a mettere in moto uno sviluppo economico e sociale dal basso, autogestito, che tenda a superare lo squilibrio attuale  sia al loro interno, sia tra questi paesi e gli altri, del mondo cosiddetto  sviluppato, senza condizionarli  politicamente ed ideologicamente, ma cercando sempre, insieme, di moderare al massimo, la situazione di violenza attualmente operante e diffusa.

In questo lavoro la nostra associazione, e le organizzazioni a questa aderenti, si sono trovate spesso in  contrasto con la politica del nostro, e dei paesi cosiddetti sviluppati del G8  (di cui facciamo parte), perché questi non hanno mai compreso il vero valore della nonviolenza, con le sue due armi, il progetto costruttivo e l’azione diretta  nonviolenta, e sono intervenuti non per appoggiare le soluzioni nonviolente (vedi l’esempio del Kossovo  dove queste non hanno fatto assolutamente nulla per appoggiare la lotta nonviolenta del popolo kossovaro di etnia albanese contro l’oppressione serba, ma hanno aspettato ad intervenire, e solo militarmente, quando la lotta nonviolenta degli albanesi kossovari si è trasformata (anche con il loro appoggio) in lotta armata, e spesso non hanno operato, contrariamente alle nostre organizzazioni,  nemmeno per appoggiare uno sviluppo autoctono ed autogestito di questi paesi, ma  cercando invece di  esportar loro la politica del mercato e del capitale.

Per questo i nostri paesi sono in gran parte responsabili della situazione inadeguata di molti di questi altri  paesi, immersi in conflitti  tra gruppi etnici diversi, e spesso anche gestiti autoritariamente ed utilizzando la violenza, da gruppi etnici particolari verso altri. Per questo l’esodo di molti disparati da questi paesi verso il nostro, e verso il mondo occidentale, non può essere considerato una tragedia  incomprensibile da gestire militarmente, rimandando ai loro paesi gli immigrati spesso disperati che non hanno altra soluzione che la fuga, ma un fenomeno che richiede una attenta considerazione ed un aiuto a svilupparsi in modo serio e civile, utilizzando la ricerca  e l’azione ,e monitorando continuamente il rapporto tra questi due ultimi, secondo il principio della ricerca-azione che la nostra associazione ha messo a punto e sviluppato nel corso di tutta la sua attività  ultra decennale.

 E’ indubbio che quello che sta accadendo nel Mar Mediterraneo configura un conflitto. Conseguenza di altri conflitti in atto risolvibili solo con soluzioni che richiedono lunghi periodi di negoziazione. Ma nell’immediato è necessario fare in modo che non muoiano in mare le persone che giustamente cercano di migliorare le loro condizioni di vita sfuggendo a situazioni di cui portano in primo luogo le responsabilità i governi dei paesi dell’Unione Europea che oggi cercano di evitare di farsi carico del disastro innanzitutto destabilizzando gli stati del Medioriente per favorire gli interessi delle imprese delle loro nazioni.

 Per questa ragione da più parti, specialmente dalle classi politicanti più arretrate e di fatto prone ai poteri forti, fra cui spiccano gli apparati militari, viene chiesto il ripristino o il mantenimento della missione militare di salvataggio dei naufraghi.

 Ma noi sentiamo che il primo soggetto che dovrebbe essere chiamato in causa sia quel settore della società civile che sta mettendo in atto modelli di intervento fondati sul diritto dei civili a difendere i civili dal momento che tutte le statistiche mostrano ampiamente l’inadeguatezza delle forze armate quando non addirittura la responsabilità di queste ultime nello sterminio dei civili che avviene in ogni guerra.

 Innanzitutto la prima cosa che viene in mente è l’inspiegabilità del fatto che persone che fuggono da luoghi dove le armi sono una presenza inquietante, le vessazioni abitualmente commesse da militari e forze di polizia fanno parte di una quotidianità insopportabile e, nel loro percorso verso la libertà abbiano conosciuto ancora armi, prigione e tortura, trovino come ancora di salvataggio navi da guerra, altri militari e ancora armi e che debbano, al loro arrivo, essere identificati da poliziotti che si preoccupano più del contenimento di comportamenti che di un atteggiamento di accoglienza. Ben altra cosa sarebbe essere accolti da persone che mostrano immediatamente capacità di relazione e di comunicazione in grado di instaurare da subito quel genere di rapporti umani che fa sentire la persona un essere umano. Entrando in relazione possibilmente usando la stessa lingua, in questo caso quella dei naufraghi. Con il contributo di persone in grado di praticare i primi soccorsi e che pongono in primo piano il bisogno dell’essere umano che sta loro di fronte. Un’accoglienza che, una volta giunti a terra, potrebbe trasformare la “burocratica” identificazione, con la tristissima e umiliante procedura della presa delle impronte digitali in un primo momento di restituzione alla persona della sua identità e della sua storia come momento di ricostruzione della sua personalità per dargli l’opportunità di riprendere a guardare con serenità il proprio futuro piuttosto che farlo sentire nella condizione di inferiorità in cui si trova inevitabilmente chi sente pendere su di sé il rischio di essere ricacciato nella situazione da cui ha cercato di emanciparsi o che avviene accolto per cause di forza maggiore. Per di più considerato come un criminale, dal momento che la registrazione delle impronte digitali, dal punto di vista procedurale, permane solo in campo penale, non viene neppure eseguita per le persone in stato di fermo.  Quindi in circostanze continuamente precarie in cui diviene praticamente impossibile pensare a un proprio futuro e cercare di programmarlo possibilmente in continuità con il percorso che è stato interrotto dall’emigrazione. Ma per fare tutto ciò è necessaria l’assunzione di responsabilità delle parti più coscienti della “società civile”.

 Ciò potrebbe avere come conseguenza anche una riduzione di costi. E’ notorio che la macchina militare è molto costosa. Mentre un intervento civile fondato in parte sul volontariato, in particolare quello strutturato, per es. con le strutture del servizio civile e della stessa protezione civile, in parte sull’apporto professionale, che dovrebbe soprattutto garantire continuità e organicità dell’intervento, con il contributo insostituibile degli enti locali, peraltro da lungo tempo in prima linea nell’accoglienza dei naufraghi e dimostratisi nel tempo altrettanto solidali della società civile, soprattutto, con la collaborazione delle comunità amministrate, capaci di mettere in atto una politica estera decisamente più avanzata di quella miope e totalmente inadeguata dei governi nazionali e della stessa Unione Europea, potrebbe essere molto meno oneroso e soprattutto a livello di analisi costi-benefici molto più sostenibile soprattutto nel lungo periodo, dal momento che l’eliminazione delle cause di quest’esodo epocale comporta processi che nell’immediato sembrano ben distanti dall’essere semplicemente avviati.

 L’intervento militare è fondato sull’utilizzo di mezzi molto costosi come sono le navi da guerra. Piccole imbarcazioni veloci potrebbero conseguire un risultato migliore permettendo un più rapido raggiungimento delle imbarcazioni in difficoltà e operazioni di salvataggio più efficaci (basti pensare al tempo che occorre per salire a bordo di una nave e quanto ne è sufficiente per montare su un piccolo motoscafo o un’imbarcazione di piccolo cabotaggio) e avrebbero certamente costi inferiori.

 L’intervento potrebbe avere carattere transitorio dal momento che l’obiettivo intermedio continua a rimanere l’attivazione di canali legali e di garanzia di trasporti sicuri, alla quale la Commissione Europea e le istituzioni nazionali si sono mostrate sorde e totalmente insensibili. Per quanto sappiamo benissimo che l’unico approdo ragionevole sarà quello dal momento che i vari governi di riferimento dei diversi soggetti in campo (ad es. i 4 esecutivi che si spartiscono la Libia) molto difficilmente riusciranno a trovare un accordo che permetta la stabilità di quel paese e un ritorno alla normalità della vita in tempo di pace in tempi brevi.

 Per trovare le risorse necessarie, innanzitutto logistiche (imbarcazioni e strumenti di rilevamento) riteniamo necessaria una sinergia con quelle oo.n.gg. che ne sono provviste come riteniamo necessario che questo progetto raccolga la quantità più ampia di risorse disponibili prevedendo anche che possa essere in futuro esteso a livello europeo puntando a creare una rete d’accoglienza in grado di tracciare una linea politica ben precisa che fino a oggi abbiamo invano chiesto ai governi nazionali e alle istituzioni internazionali di scegliere. Convinti come siamo che il senso di appartenenza al genere umano e la conseguente solidarietà nei confronti dei nostri simili possano, se gestiti nel modo giusto, risultare perfino ben più producenti dal punto di vista del consenso delle strategie e dei calcoli della classe politicante più inadeguata che i nostri Paesi abbiano mai avuto, comprese quelle che li hanno portati nei conflitti che hanno insanguinato la storia del XX secolo con gli strascichi che si trascinano anche in quello attuale.  

 A questo punto chiediamo a quanti sentono l’urgenza di intervenire e l’opportunità di partecipare a un intervento civile che vorremmo progettare insieme, ascoltando quante voci più possibile perché possa essere un intervento efficace e utile in quanto riteniamo che l’unica soluzione possibile sia la trasformazione nonviolenta dei conflitti alla ricerca di una soluzione che soddisfi le esigenze di tutti i soggetti coinvolti: innanzitutto i migranti, le loro comunità, quelle che possono accoglierli e le istituzioni nazionali e internazionali di condividere e dare il proprio contributo alle varie fasi di progettazione e realizzazione del progetto.

 

La bozza, con le mie aggiunte in rosso , se queste vengono accettate dal direttivo e da tutte le organizzazioni aderenti, e con le correzioni al testo che queste vorranno  comunicare al direttivo ed accettate da questo, dovrebbero poi essere messe in carta ufficiale dell’IPRI-Rete CCP con tutte le associazioni che vi aderiscono.