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23/03/2015

 

Espansione di diritti: dal Servizio civile alla Difesa civile. Il compito della nostra generazione

di Pasquale Pugliese

 

Nei diversi incontri pubblici, svolti in giro per l’Italia per presentare e promuovere la campagna “Un’altra difesa è possibile” – collocati nel tempo attraversato tragicamente dalle stragi di inizio anno a Parigi e di marzo a Tunisi – argomentate le buone ragioni della difesa civile, non armata e nonviolenta, la domanda più ricorrente è relativa al come difendersi dal pericolo del terrorismo fondamentalista. Generalmente considerato causa in sé di violenza fanatica e non esito nefasto di oltre vent’anni di folli interventi bellici occidentali in medio-oriente – dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Somalia alla Libia – in una dinamica perversa, reciprocamente alimentata, di guerra-terrorismo-guerra- terrorismo. Della quale non se ne vede la via di uscita, se la si cerca all’interno del meccanismo di escalation… La proposta di una legge di iniziativa popolare per la difesa civile, non armata e nonviolenta, mira proprio ad uscire da questo circolo vizioso attraverso la predisposizione di mezzi e strumenti di intervento nei conflitti più raffinati ed efficaci della cieca violenza che si aggiunge alla violenza cieca. La cui esigenza era già sentita, seppur non ancora compiutamente elaborata, dai “Padri costituenti”.

 

 Costituzione: ripudio della guerra, difesa della Patria

Gli eletti all’Assemblea costituente, il 2 giugno del 1946, conoscevano bene la guerra. E conoscevano bene la lingua italiana. Molti di loro erano stati in carcere, in esilio, sulle montagne partigiane, nelle città bombardate. Nell’Italia post bellica – nella quale la maggioranza del Paese era ancora analfabeta – scelsero di scrivere la Costituzione repubblicana usando una lingua chiara, semplice, accessibile a tutti. Non equivocabile. Per esempio, nei principi fondamentali decisero di segnare non solo il “rifiuto” ma addirittura il “ripudio” della guerra e all’articolo 52 usarono l’aggettivo “sacro” accanto al “dovere di difesa della Patria”.

Il verbo ripudiare ha la stessa radice etimologica di ripugnare, ed indica la ripulsa, la vergogna. La guerra, secondo i Costituenti, è qualcosa che il nostro Paese ha usato e della quale è necessario vergognarsi ed averne ripulsa. Non solo come “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, che sarebbe (ma non è) ovvio, ma anche come “mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Non erano ingenui i padri della Repubblica, sapevano che le controversie, i conflitti internazionali ci sono e ci saranno, forse, sempre. Ma erano certi che la guerra non fosse il mezzo e lo strumento adeguato per affrontarli. E’ come se avessero voluto ammonire le generazioni successive: “noi siamo arrivati fino a questa consapevolezza, adesso tocca a voi completare l’opera: cercate mezzi e strumenti dei quali non vergognarsi”. Mezzi e strumenti alternativi alla guerra.

Nell’articolo 52, poi, separarono con attenzione il primo comma – “la difesa della Patria è sacro dovere dei cittadini” (di tutti i cittadini, ap/punto) – dal secondo che parla dell’obbligo militare che è sottoposto ai vincoli di legge, infatti oggi non è più un obbligo. Eppure la difesa del Paese, continua ad essere compito “sacro”, al quale tutti debbono dare il proprio contributo, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” per citare un altro principio fondamentale (art.3) della Costituzione. Non solo, ieri, gli “obbligati” abili e arruolati e, oggi, i volontari “combattenti” che vestono una divisa ed imbracciano un fucile. Ma fu necessaria una sentenza della Corte Costituzionale, arrivata quasi quarant’anni dopo (nel 1985), a sancire questa distinzione e ad affermare che c’è almeno un altro modo – “civile” – di difendere la Patria.

 

 Pietro Pinna ed Aldo Capitini, la costruzione dei mezzi alternativi

Nello stesso periodo in cui veniva scritta e promulgata la Costituzione (1946-1948), e con essa sancito il ripudio repubblicano della guerra, un giovanissimo Pietro Pinna maturava il suo personale ripudio dello strumento che la prepara e la rende possibile: l’esercito. Dichiarandosi “obiettore di coscienza” quando questa scelta non aveva neanche un nome che la definisse. “Si lottava per liberare il mondo dalla violenza, e la violenza saliva a culmini inauditi” – scriverà di quella decisione, vent’anni dopo, nel 1968 – “Tutti combattevano per il bene e la verità, e intanto questi si trovavano ad essere – in una incoerenza flagrante – istantaneamente smarriti e sempre più asserviti dai modi pratici tenuti dai loro assertori. E allora erano i modi da mettere una buona volta in discussione, i mezzi di attuazione. Era la critica della violenza e della menzogna, del distacco tra le parole e i fatti: questo – insito in noi stessi – il grande nemico da abbattere, era questo il male sommo e preminente che, a partire da noi stessi, insidiava il progresso reale dell’uomo”. Pinna fini per tre anni nelle carceri militari e fu considerato pazzo, ma il suo caso fece aprire nel Paese il primo confronto, culturale e politico, sui temi dell’obiezione di coscienza, del servizio civile e sui mezzi alternativi alla violenza.

E’ Aldo Capitini a cogliere in Pinna quella intima persuasione che ne fa precursore di una realtà nuova, che può realizzarsi attraverso un compito politico, che – contemporaneamente – così descriveva: “i convegni, la propaganda, le varie iniziative che si fanno ora frequenti in Italia <<per la pace>>, hanno questo scopo più o memo chiaro. In uno di questi convegni ho fatto tre proposte:

1 – l’organizzazione di un’associazione di resistenti alla guerra, cioè di coloro che in tempo di guerra si rifiutano di uccidere, accettando altri servizi pur pericolosi, come per esempio di raccogliere feriti davanti alle prime linee;

2 – l’istituzione di un servizio civile, di altrettanto sacrificio che stia a fianco del servizio militare (finché durerà), in modo che i giovani possano scegliere;

3 – l’istituzione di un Ministero o Commissariato per la resistenza alla guerra. Esso dovrebbe addestrare tutti i cittadini, fin da fanciulli, alla non collaborazione nonviolenta con un eventuale invasore. In quanti modi si può ostacolare l’invasore senza uccidere nessuno! Ma bisogna imparare, bisogna aver pronti certi mezzi. Una non collaborazione attivissima di moltitudini non è una terza via, oltre la guerra e il cedere? oltre il prendere le armi, che oramai sarebbe sempre al servizio di altri, e il cedere a chi porti la guerra qui?

L’Italia deve dare l’esempio a sé, all’Europa, e agli altri nel mondo, insensualiti dal possesso delle armi, di modi diversi nell’affermare la civiltà”.

 

 Dall’obiezione di coscienza alla difesa civile: alcune tappe

E’ in quel giro di anni – tra la stesura meditata della Costituzione, la scelta solitaria di Pietro Pinna e il lavoro instancabile di Aldo Capitini – che si gettano le basi giuridiche, politiche e culturali che porteranno al diritto all’obiezione di coscienza, al servizio civile nazionale prima ed alla proposta di legge per la difesa civile, non armata e nonviolenta, oggi.

Alcune tappe di questo percorso accidentato ed esaltante passano attraverso il processo a Lorenzo Milani e le sue lettere ai cappellani militari ed ai giudici, la Marcia della pace e la riconciliazione del popoli del 24 settembre 1961 da Perugia ad Assisi, la nascita del Movimento Nonviolento e le azioni dirette del Gruppo di Azione Nonviolenta, le centinaia di obiettori di coscienza nelle carceri militari di Forte Boccea a Roma, Peschiera del Garda e Gaeta, le marce antimilitariste che ne chiedevano la liberazione, la nascita della Lega Obiettori di Coscienza… Passano dall’impegno di una minoranza che conquista, passo dopo passo, prima – con la legge 772 del 1972 – la concessione della possibilità dell’obiezione di coscienza, in alcuni specifici casi, dopo – con due sentenze della Corte costituzionale (n 164/1985 e 470/1989) e la legge del 230 del 1998 – il diritto all’obiezione di coscienza per tutti e, infine – con la legge 64 del 2001 – il diritto al Servizio Civile Nazionale come “difesa della patria con mezzi e attività non militari”.

Già nella legge del ’98 si parlava di “un servizio civile, diverso per natura e autonomo dal servizio militare, ma come questo rispondente al dovere costituzionale di difesa della Patria e ordinato ai fini enunciati nei Principi fondamentali della Costituzione” e, si attribuiva all’Ufficio nazionale del servizio civile – istituito con la stessa legge – anche il compito di “predisporre, d’intesa con il Dipartimento per il coordinamento della protezione civile, forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta.” La Legge attuale e il relativo Decreto legislativo (n.77 del 2002) ribadiscono questo principio, così come fanno le Linee guida per la formazione generale dei volontari civili (emanate dall’UNSC nel 2013) che definiscono l’identità del Servizio Civile in quanto “autonomo istituto repubblicano di difesa civile, alternativa a quella militare”.

Eppure, il servizio civile nazionale – che pur non esaurendo in sé integralmente il concetto di difesa civile, non armata e nonviolenta, ne costituisce la prima applicazione – anziché essere una vera e piena alternativa alla difesa militare, riesce con grande fatica a far partire, ogni anno (se va bene), solo poche migliaia di giovani (quest’anno appena 29.970). Con risorse di risulta e appoggiandosi a meri strumenti di lotta alla precarietà, come “Garanzia giovani”.

 

 Difesa militare e difesa civile, non armata e nonviolenta

Eppure la potenzialità della difesa civile e i suoi campi di applicazione sono incomparabilmente più ampi e profondi della difesa militare, che si basa esclusivamente sul principio della maggiore capacità distruttiva rispetto al “nemico”, cioè esattamente sulla preparazione di quella guerra che la Costituzione – solennemente – ripudia. Nella preparazione della quale il nostro Paese continua ad investire – anno dopo anno – impressionanti cifre del bilancio dello Stato, che lo rendono la quinta potenza militare europea e tra le prime undici sul pianeta. Ma tra le più fragili sul piano della sicurezza sociale delle persone, sul piano della difesa dei diritti civili dei cittadini, su quello della protezione della democrazia dalle minacce del terrorismo e delle mafie. Oltre che incapace di intervenire efficacemente nei conflitti internazionali, per aiutarne la risoluzione pacifica anziché la degenerazione violenta.

La difesa civile, che – al contrario di quella militare – usa mezzi e strumenti coerenti con le finalità perseguite ha, tra gli obbiettivi dichiarati dalla proposta di Legge di iniziativa popolare, la difesa della Costituzione e dei diritti civili e sociali in essa enunciati; la predisposizione di piani per la difesa civile non armata e nonviolenta, compresa la formazione della popolazione; le attività di ricerca per la pace, il disarmo, la risoluzione dei conflitti e la conversione a fini civili delle industrie belliche; la prevenzione dei conflitti armati, la mediazione, la riconciliazione, la promozione dei diritti umani, l’educazione alla pace e al dialogo inter-religioso, in particolare nelle aree a rischio di conflitto, in conflitto o post-conflitto; il contrasto delle situazioni di degrado sociale, culturale ed ambientale e la difesa della vita, dei beni e dell’ambiente; infine – affinché tutto ciò sia davvero possibile – l’organizzazione delle strutture della Difesa civile non armata e nonviolenta, attraverso il Dipartimento preposto.

Così come la scelta della strada lunga ed impegnativa della proposta di Legge di iniziativa popolare è servita ad avviare un confronto tra i cittadini, le associazioni, le amministrazioni locali (decine, ormai le mozioni di sostegno, votate nei consigli comunali e le firme dei sindaci di Comuni piccoli e grandi), da trasferirsi successivamente in Parlamento, per ridefinire i concetti di minaccia, sicurezza e difesa e le relative priorità, anche il finanziamento del Dipartimento è demandato, sostanzialmente, alla volontà dei cittadini che ne possono decidere l’opzione fiscale, in sede di dichiarazione dei redditi. Ciò che le Reti promotrici della campagna “Un’altra difesa possibile” vogliono favorire è una scelta di consapevolezza e di responsabilità personale, relativa a quel “sacro dovere di difesa della Patria” indicato dalla Costituzione repubblicana. E contemporaneamente una espansione di diritti, che abbracci anche il diritto alla difesa civile, non armata e nonviolenta. Dopo l’impegno dei Padri costituenti, di Aldo Capitini, Pietro Pinna, don Milani e gli obiettori di coscienza…questo è il compito della nostra generazione.