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Giovedì, 05 Novembre 2015

 

Rohingya: per la International State Crime Initiative non ci sono dubbi, è genocidio

di Michele Penna

 

Una ricerca pubblicata giovedì scorso dalla International State Crime Initiative (Isci), una organizzazione affiliata alla Queen Mary University di Londra, promette di concentrare nuovamente l’attenzione del mondo sui rohingya, una minoranza etnica musulmana residente nel Myanmar occidentale.

 

Intitolato “Conto alla rovescia verso l’annientamento: genocidio in Myanmar”, il documento è un resoconto approfondito delle politiche perseguite da vari governi birmani nei confronti di questa comunità, e conclude che siamo di fronte a un caso di genocidio.

I rohingya sono abitanti dello Stato del Rakhine, al confine il Bangladesh, che una legge approvata nel 1982 ha privato del diritto di cittadinanza. Vari scontri fra la comunità buddista - che nel Rakhine è maggioritaria – e quella musulmana hanno costretto la quasi totalità dei rohingya a fuggire in campi per sfollati.

Secondo il rapporto, le motivazioni di questo conflitto non sono tanto religiose quanto politiche, e per capirle bisogna tenere presente la storia del Rakhine, la frontiera occidentale del Myanmar.

Chiamato anche Arakan, il Rakhine fu per lungo tempo uno Stato indipendente con una sua capitale, Mrauk U, e perse la sua autonomia a favore dei re birmani solo nel 1785. A dispetto del cambio di amministrazione - e del colonialismo inglese che subentrò poco dopo - la maggioranza della popolazione locale è rimasta arakanense, buddista ma distinta dai bamar che popolano le fertili pianure dell'Irrawaddy.

In seno a questa a questa minoranza nazionale se ne trova poi un’altra: appunto quella dei rohingya, che forse sono i discendenti dei soldati musulmani arrivati al seguito di Re Narameikhla, il fondatore di Mrauk U.

Dato che i cittadini buddisti del Rakhine condividono con altri gruppi etnici una forte antipatia per l’amministrazione birmana - che poco ha fatto per favorirne lo sviluppo economico e sociale – il governo avrebbe trovato utile favorire l’odio fra buddisti e musulmani, con l’intento di mantenere il controllo su entrambi.

Secondo il rapporto, “i rohingya ricevettero carte d'identità e ottennero il diritto di votare al tempo della prima amministrazione post coloniale [..] Negli Anni Sessanta, il servizio ufficiale di broadcasting trasmetteva tre volte alla settimana un programma radio nella lingua dei rohingya [..] e il termine ‘rohingya’ veniva impiegato in giornali e libri di testo fino alla fine degli Anni Settanta.”

Poi le cose cominciarono a cambiare. Oltre a privarli della cittadinanza, il governo si è accanito contro la loro storia per farli apparire il più possibile stranieri, per esempio distruggendo le moschee della zona – segni inequivocabili della loro presenza in tempi andati. Secondo la ricerca, nel 2012 ne sono sparite 33 nella sola Sittwe, la capitale regionale.

Oggi i rohingya vengono additati come immigrati provenienti dal Bangladesh intenti a rovinare la vita degli autoctoni, e un sentimento di ostilità verso di loro è diffuso in tutto il Paese. Il loro nome è sparito dalla circolazione: il governo si rifiuta di riconoscerlo e nel 2014, quando venne indetto un censimento nazionale, l’unico modo di registrarsi per questa comunità fu alla voce ‘bengalesi’.

La crisi ha fatto un salto di qualità con i cruenti scontri del 2012. Human Rights Watch li definì episodi di pulizia etnica perpetrati dalle autorità locali con l'assenso del governo centrale, e scrisse che 128mila persone dovettero abbandonare le proprie case. Recenti dati delle Nazioni Unite citati da Amnesty International parlano di 416,600 individui afflitti da violenze.

Sono loro che, cercando di fuggire verso altri Paesi, hanno precipitato la crisi dei rifugiati della primavera scorsa e che secondo Amnesty potrebbero causarne un'altra con la fine del monsone. A casa, dopotutto, hanno già perso tutto.

Secondo lo studio, i pogrom furono organizzati nei minimi dettagli da attivisti arakanensi in combutta con l'Arakan National Party, il locale partito dei Rakhine. Sembra infatti che per giorni una serie di autobus speciali abbiano fatto la spola per trasportare uomini arakanensi appositamente reclutati verso i villaggi da attaccare, mentre altri bloccavano la fuga degli sfollati, indirizzandoli verso i campi dove avrebbero trovato ‘residenza’.

In almeno un caso, il rapporto cita fonti secondo le quali le forze armate avrebbero chiesto agli assalitori se fossero abbastanza numerosi per sopraffare un villaggio, e, avuta una risposta affermativa, avrebbe sgomberato il campo. Segno, scrivono i ricercatori, che il governo sapeva quello che stava accadendo e non è intervenuto.

Tracciando un parallelo con il caso del Ruanda e della Germania nazista, la International State Crime Initiative conclude che si tratta di un processo di genocidio vero e proprio. I rohingya “sono stati e continuano ad essere deumanizzati e discriminati. Sono stati maltrattati, terrorizzati e massacrati. Sono stati isolati e segregati in campi di detenzione e inseriti in villaggi e ghetti. Sono stati indeboliti sistematicamente con la fame, la malattia, la negazione dei loro diritti civili,” affermano gli autori.

Mancano solo due ulteriori passi perché il processo sia completo: lo sterminio e la rimozione della loro presenza dalla memoria collettiva della comunità locale. Il primo, “seppur non inevitabile, non si può escludere.”

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