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Lunedì, 05 Gennaio 2015

L’insostenibile leggerezza di un’eurozona guidata dalla Bce
di Fabrizio Goria

Questa non è una storia economica, sebbene tratti di economia. E non è nemmeno una storia finanziaria, nonostante riguardi anche la finanza. Quella che leggerete è una storia che parla di potere e politica. L’ambientazione è l’eurozona. Il protagonista è Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea (Bce).

E gli antagonisti sono tanti, forse troppi. Come in ogni storia di potere, bisogna partire da quella che è la maggior virtù del protagonista: il machiavellismo. Chi scriverà la biografia del banchiere centrale italiano probabilmente lo paragonerà a quel Niccolò di Bernardo dei Machiavelli che nel 1513, 500 anni prima di Draghi, definì i nuovi standard della dottrina politica. Non sarebbe un azzardo. Non tutte le storie, tuttavia, terminano con un lieto fine.

Quando Mario Draghi divenne presidente della Bce, il 1° novembre 2011, gli scettici e i complottisti vedevano in lui il fulcro di un sistema finanziario corrotto e capace di distruggere, invece che innovare. Con buona pace di essi, tuttavia, il banchiere centrale italiano ha saputo mantenere unita un’area economica vicina alla disgregazione. E lo ha fatto più con le parole, che con le azioni. Sia chiaro: non è che tutto quanto messo in campo dalla Bce dal 2011 a oggi per preservare l’euro non ha importanza. Ma in più di una occasione sono state le capacità dialettiche, politiche e diplomatiche di Draghi a risolvere situazioni che sembravano impossibili. Per capirlo, però, bisogna tornare indietro a quei giorni di fuoco che portarono l’Italia vicina all’esclusione dai mercati obbligazionari. Giorni in cui perfino Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale (Fmi), affermava alla comunità finanziaria che senza azioni incisive l’eurozona avrebbe avuto solo altri tre mesi di vita. 

Il temperamento politico di Draghi si è manifestato alla massima potenza in due occasioni. La prima risale al 2012. Nel pieno della tempesta finanziaria che ha investito l’eurozona, Draghi ha usato uno stratagemma per andare oltre i limiti del mandato della Bce. Ha usato la palese rottura del meccanismo di trasmissione della politica monetaria dell’Eurotower per lanciare le Outright monetary transazioni (Omt), il piano di acquisti di titoli di Stato dietro condizionalità che ha abbassato i tassi d’interesse delle nazioni più sotto pressione, Italia e Spagna. Del resto, le armi precedentemente usato - in prevalenza, azioni sui tre tassi principali della Bce, rifinanziamento, Marginal lending facility e depositi - non avevano prodotto quanto sperato. Più la Bce tagliava il costo del denaro, meno gli istituti di credito dell’area euro periferica abbassavano i tassi a cui prestavano alle imprese. Un quadro distruttivo sia nel breve sia nel lungo periodo. Con il cappello protettivo delle Omt, i Paesi hanno potuto riprendere fiato. E vale la pena sottolineare che le Omt non sono mai state utilizzate. La politica dell’annuncio come arma integrante della politica monetaria della Bce, infatti, è stata l’arma in più di Draghi. 

Poi, dato che la crisi dell’eurozona non è un unicum, bensì rientra in un processo di ribilanciamento globale dei fattori di produzione delle economie avanzate e degli squilibri fra aree economiche, ha dovuto utilizzare un altro stratagemma per rivitalizzare l’area euro, colpita da uno scenario di bassa inflazione, crescita anemica e alto debito. Ha lanciato le Targeted longer-term refinancing operation (Tltro), operazioni mirate di rifinanziamento a lungo termine, con le quali è pronta a prestare alle banche fino a 1.000 miliardi di euro con aste fino al 2016. Da un lato ha creato una stampella di liquidità a basso costo per gli istituti di credito, dall’altro ha posto dei vincoli (blandi, a onore del vero) per il finanziamento al settore privato. Non solo. Draghi lo scorso 5 giugno, alla presentazione delle Tltro, aveva ribadito che sarebbero rientrare in un processo. Impossibile quindi, valutare solo quel singolo fatto. Dopo pochi mesi, complice un prolungato scenario di bassa inflazione e crescita peggiore rispetto alle previsioni, ha lanciato un programma di acquisti di covered bond e di titoli cartolarizzati, cioè Asset-backed security (Abs) e Residential mortgage-backed security (Rmbs). Il tutto con l’obiettivo dichiarato di espandere il bilancio della Bce di circa 1.000 miliardi di euro, dagli attuali 2.000 miliardi. 

E lo stratagemma usato? Semplice. L’unico target esplicito della Bce è il tasso d’inflazione, che deve essere intorno al 2% annuo. Attualmente, con lo 0,4% a ottobre, l’istituzione monetaria con base a Francoforte è totalmente fuori obiettivo. Un fatto su cui nessuno discute. Nemmeno la Bundesbank di Jens Weidmann, considerato non a torto come la nemesi di Draghi. Tanto è falco il primo, tanto è colomba il secondo. Pur senza i poteri che ha il governatore della Federal Reserve, il cui mandato è sia la stabilità dei prezzi sia il massimo impiego, Draghi ha potuto mettere in campo azioni che ricordano il Quantitative easing (Qe) statunitense. Ma prima che si parli di Qe, occorre attendere ancora del tempo. Colpa delle divergenze interne, che il banchiere centrale italiano sta cercando di appianare a fatica. Anche perché non è sicuro che sia questa la via più corretta per uscire dalle sabbie mobili.

Le recenti indiscrezioni, riportate in primis da Reuters, che narrano di diversi dissidi all’interno del board della Bce sono concrete. Tuttavia, come spiega un alto funzionario della Bce, quasi tutte riguardano i metodi di comunicazione di Draghi, non le decisioni finali. Traduzione: alcuni membri della Bce mal tollerano la segretezza di Draghi nelle decisioni. “È come se avesse abituato tutti a continui coup de théâtre. Arriva ai meeting senza parlare con alcuno e presenta le misure, supportandole con dati incontrovertibili”, afferma il funzionario. È vero. È l’innovazione comunicativa dell’ex governatore della Banca d’Italia. Ma è solo a fine agosto che ha incrementato questa sua strategia, proseguita con l’annuncio dell’avvio di acquisto di titoli cartolarizzati. A Jackson Hole, sede del simposio economico della Federal Reserve, Draghi parlò, senza anticiparlo ad alcuno, di fiscal stance aggregata. In altre parole, se uno Stato ha un bilancio con capacità di espansione, come la Germania, dovrebbe decidere di espanderlo, invece di continuare a consolidare. Un messaggio di solidarietà in un’area economica disintegrata come quella dell’euro, in cui sono presenti 19 economie diverse, con 19 esigenze differenti e 19 interessi nazionali contrastanti. Un messaggio mal tollerato dalla Germania, che preferirebbe osservare più sforzi nel consolidamento fiscale da parte di quei Paesi, l’Italia su tutti, che hanno promesso tanto e mantenuto poco. 

La Germania chiede un do ut des - riforme in cambio di trasferimenti - ma in realtà anche la Bce. Draghi è solito ripetere che “la Bce non può sostituirsi ai governi”. E ha ragione. Perché per ora chi ci ha messo la faccia (e i rischi) più di tutti gli altri è proprio Francoforte. Si è fatta carico (virtuale) delle malversazioni dei singoli, cercando di andare oltre. E ha tentato - i risultati effettivi si vedranno solo fra qualche mese - di ridare credibilità a un sistema bancario opaco come quello dell’area euro lanciando la più colossale operazione di sorveglianza microprudenziale mai osservata, il Comprehensive assessment, i cui risultati sono stati resi noti lo scorso 26 ottobre. Così, insieme all’Unione bancaria e lo European stability mechanism (Esm), si sono poste le fondamenta per un’area più sicura, in cui perfino un evento come l’uscita di uno dei suoi membri potrebbe essere gestita in modo migliore rispetto a tre anni fa. Almeno in teoria, ovviamente, dato che nella realtà situazioni del genere potrebbero avere conseguenze imprevedibili. 

 Il machiavellismo di Draghi non è fine a sé stesso. Se, come fanno notare diverse fonti della Bce, sta riuscendo a convincere anche Weidmann che, se non migliorano le aspettative sull’inflazione, il lancio del Qe a tutti gli effetti, comprendente l’acquisto di titoli di Stato secondo i capital key della Bce, non è più un tabù significa che la sua poltrona è la più importante nell’area euro. “Possono mutare i governi, può cambiare il vertice della Commissione europea, ma l’importante è che Draghi sia all’Eurotower”, afferma un banchiere di UBS dietro anonimato. La storia recente dell’eurozona sarà sempre più legata alla figura di Draghi. Ma fino a che punto? Fino a che punto la Bce potrà continuare a essere il baricentro di un’area economica che tentenna e non agisce in modo corale? C’è solo una certezza, nel lungo periodo. Senza un colpo di reni da parte dei governi nazionali, l’attuale nuova normalità tornerà a essere quella crisi virulenta che era fra il 2011 e il 2012. E allora, nemmeno la Bce potrà qualcosa.

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