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set 7th, 2015

 

I tre drammatici fattori di crisi in Europa

di Dario Rivolta

Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali

 

L’assenza di una vera politica unitaria sta mettendo a rischio la tenuta di quel poco di Europa che ancora resiste. La ragione non sta nei vari partiti anti-euro e anti-Europa che crescono in molti dei Paesi membri: si tratta, piuttosto, di scongiurare il progressivo svuotamento delle ragioni che spinsero a unirsi (?) i Ventotto. Fino alla fine del mondo in due blocchi e mentre l’economia internazionale tirava, anche l’inadeguatezza delle istituzioni comunitarie non era apparsa così drammatica e il benessere raggiunto aveva nascosto sotto il tappeto il persistere degli egoismi nazionali. Ognuno vedeva l’Unione come un’opportunità di arricchimento e così è stato fino a quando la crisi del 2007 ha cominciato a invertire le prospettive. Da allora il sistema così parziale di cessione della sovranità e il contemporaneo mantenimento dell’unanimità per le decisioni veramente importanti hanno ulteriormente dimostrato come la cosiddetta “Unione” fosse tale solo di nome e non di fatto.

Oggi l’Europa affronta nello stesso momento ben tre drammatici fattori di crisi e, in tutti, subisce gli eventi senza saperli dominare come invece una vera federazione dovrebbe fare. Parliamo dell’emergenza dei debiti pubblici, dell’esodo incontrollato d’intere masse e di quella più grave di tutte: il rischio di guerra per la questione ucraina.

Nel primo caso, nonostante siano sempre più numerosi gli economisti che vedono nelle politiche recessive imposte da Germania e Paesi satelliti un grave errore macroeconomico, si continua sulla stessa strada, facendo finta di non sapere che essa ci porterà soltanto a situazioni ancora più disastrose.

L’attenzione è rivolta alla Grecia, ma il vero dramma potrebbe non accadere ad Atene, bensì a Roma. Il nostro debito pubblico è previsto quest’anno arrivare al 132,5% del Pil e il governo, con il plauso delle istituzioni europee, dichiara di poterlo riportare al 120% nel 2019. E’ evidente che in un contesto di bassa crescita un’inflazione volutamente bassa e avanzi di bilancio che, ottimisticamente, arriveranno tra l’1 e il 2% del Pil, non sarà mai possibile ottenere il risultato prefissato. Per riuscirci occorrerebbero avanzi primari crescenti fino al 4%, un’inflazione almeno vicina all’1,8% annuo e una contemporanea diminuzione costante del peso degli interessi. Anche qualora queste condizioni (irrealistiche se guardiamo ai nostri ultimi venticinque anni) si realizzassero, basterebbero una crisi di governo o la fine del Quantitative easing voluto della Banca Centrale Europea, o anche la possibile fuga degli investitori dal rischio titoli di stato per fermare o invertire la traiettoria di discesa del debito. Tutti sappiamo (e il Fondo monetario internazionale lo ha dichiarato esplicitamente) che la Grecia non sarà mai in condizione di pagare tutti i suoi debiti. Siamo sicuri che l’Italia, al contrario, potrà farlo? Intanto, qualcuno ha recuperato i propri crediti, spargendo sulle spalle di tutti gli altri i nuovi indebitamenti.

Anche verso il fenomeno migratorio l’Europa dimostra che ognuno pensa a sé e il problema non viene affrontato. Ciò che ci troviamo di fronte è certamente qualcosa di portata storica, come da secoli non se ne vedevano, e irrigidirsi sul Trattato di Dublino è solo ridicolo. Tuttavia anche superarlo non basta. I numeri già coinvolti (ma soprattutto quelli in previsione, e qualcuno parla di cinquanta milioni) sono tali che limitarsi a pensare a come ridistribuire gli arrivi si addice solo a politicanti senza statura. E’ evidente che, contrariamente a quanto avveniva nel passato nel caso di chi scappava dalle guerre, non c’è solo un legittimo desiderio di sicurezza temporanea ma una volontà di definitiva permanenza. Senza parlare poi di chi punta all’Europa esplicitamente solo per soddisfare una, ancorché legittima, ambizione di miglioramento della propria vita futura.

Allora? Accogliere chiunque arrivi può solo incoraggiare nuove partenze e si sa che le verifiche necessarie per concedere l’asilo umanitario richiedono al minimo un anno, durante il quale la persona non può essere espulsa. Perché negare che, in mancanza di una forte e comune decisione europea che colpisca le radici, il futuro che attende ogni nostra società sarà pieno di forti conflitti sociali e culturali?

La terza e più grave crisi cui ci troviamo di fronte è però proprio quella su cui l’Europa nemmeno finge di avere una sua posizione: si tratta della questione Ucraina. Lasciamo da parte, perché solo degno di analisi psicoanalitiche, l’atteggiamento di quei Paesi europei (Polonia e Paesi baltici ad es.) che s’inventano i nemici e hanno fomentato, continuando a farlo, i disordini. Soffermiamoci piuttosto sulla strategia statunitense. Per Washington, già dalla fine dell’Unione Sovietica, l’imperativo è stato ed è quello di “contenere” la Russia. A questo scopo hanno favorito malcontenti locali di vario genere in Georgia, Moldavia, Ucraina, Turkmenistan, Kirghisia e tentano di farlo anche in Bielorussia e Armenia. Come esplicitamente detto in un loro documento ufficiale del 2002, qualunque azione dovrà essere intrapresa pur di garantire che la supremazia americana nel mondo non sia intaccata e chi vi attenta deve essere combattuto. Apparentemente, a Washington sembra che destabilizzare la Russia debba rientrare in questa strategia. Sorvoliamo per ora sul fatto che, molto probabilmente, così facendo otterranno lo scopo contrario a quanto voluto (penso agli effetti del buttare a tutti i costi Mosca nelle braccia della Cina), ma qualcuno nelle nostre capitali si è chiesto dove stia, e se c’è il nostro interesse in tutto ciò?

La Russia per noi europei è un naturale mercato di sbocco dove le nostre merci e il nostro Know How sono sempre state benvenute. Una Russia stabile e ricca anziché rappresentare un pericolo costituirebbe una formidabile opportunità per le esportazioni delle imprese di tutto il nostro continente. Inoltre, considerata la dimensione di quel Paese e il lungo cammino necessario per arrivare a un vero ammodernamento della locale economia, la Russia sarebbe un mercato sicuro e redditizio per decine di anni senza contemporaneamente diventare un temibile concorrente come la Cina.

La notizia è passata quasi inosservata sulla stampa ma, mentre Bruxelles gira la testa dall’altra parte, gli USA stanno riempiendo l’est europeo di armi, militari e aerei di combattimento. Il 25 agosto il segretario per l’aviazione americana ha annunciato che i sofisticati aerei F22, in grado di sfuggire ai radar, saranno stanziati sul territorio europeo, naturalmente “in coordinamento con la Nato”. Andranno ad aggiungersi agli aerei A10, quelli destinati al supporto di unità terrestri, e ai bombardieri strategici B52. Anche le esercitazioni militari, come la recente Baltops, o quella tenutasi lo scorso maggio in Estonia con ben 13mila uomini, hanno voluto lanciare “un chiaro segnale” alla Russia di Putin. Certo, tutte queste operazioni sono solo un tentativo d’intimidazione verso Mosca, ma la risposta niente affatto intimidita è stata di rispondere con altrettante dislocazioni di armi e militari sui propri confini. Com’è possibile far finta di non vedere che questa escalation diventa sempre più pericolosa? Veramente pensiamo che la Russia possa cedere e lasciare che l’Ucraina, un territorio che rappresenta la sua storia e le sue origini, diventi alleato della Nato proprio sotto le porte di casa? Qualcuno veramente crede che la Crimea possa tornare all’Ucraina?

Sappiamo che nessuno desidera realmente lo scoppio di una guerra, tanto è vero che si citano solo di sfuggita, senza farne il fulcro della discussione, i coinvolgimenti diretti dei due maggiori contendenti nel Donbass. Tuttavia, il rischio che la situazione sfugga di mano e non si riesca più a controllare la dimensione del confronto aumenta ogni giorno di più. Peccato che il terreno su cui potrebbe eventualmente scoppiare la guerra è proprio quello di casa nostra.

Hanno ragione, dunque, i politici che domandano più Europa e chiedono finalmente decisioni comuni e quindi forti. Purtroppo di là da generiche esortazioni nessun “vertice” ad hoc è convocato e ogni governo continua, da solo, a perseguire piccoli e contingenti interessi egoistici. E l’Europa, anziché unirsi, si disgrega.