Originale: Le Monde Diplomatique

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1 febbraio 2015

Un sogno modesto e pazzo
di Serge Halimi
Serge Halimi è presidente di Le Monde diplomatique
traduzione di Giuseppe Volpe

La sinistra francese dichiarò una tregua politica – l’Union Sacrée – nell’agosto del 1914, concordando di non opporsi al governo durante la guerra. In Francia e in Germania il movimento dei lavoratori vacillò, leader sindacali di altre forze di sinistra si schierarono per la “difesa nazionale” e le battaglie progressiste furono accantonate. Sarebbe stato difficile fare diversamente quando, dall’inizio del conflitto, il pedaggio dei morti era dell’ordine di decine di migliaia. Chi sarebbe stato in grado di udire discorsi di pace sopra la retorica bellicista e nazionalista? Tuttavia fino a quel giugno, forse sino a luglio, era ancora possibile contrastarla.

Un secolo dopo, siamo in un altro momento critico. Lo “scontro di civiltà” è solo uno tra molti scenari. La lotta che sembra essere iniziata in Europa e il modo in cui gli eventi si evolvono in Grecia e in Spagna possono rendere possibile impedire che tale scenario divenga realtà; ma attacchi jihadisti, strategie di guerra al terrorismo e riduzione delle libertà pubbliche lo rendono più probabile. Rischiano di aggravare tutte le crisi che occorre risolvere. Quella è la minaccia diretta. La sfida pressante consiste nel reagirvi.

Un vignettista è libero di mettere in caricatura il profeta Maometto? Una donna mussulmana può indossare un burqa in Francia? Aumenterà il numero degli ebrei francesi che emigrano in Israele? Benvenuti nel 2015. La Francia lotta con una crisi sociale e democratica aggravata da decisioni economiche dei propri governi e di quelli dell’Unione Europea. La coscienza pubblica è, finalmente, consapevole dei problemi della disciplina della finanza, della distribuzione della ricchezza e dei mezzi di produzione. Ma questioni relative alla religione spingono questi problemi sullo sfondo (1). Per più di vent’anni, “Islam nelle banlieue”, “insicurezza culturale” e il “communautarisme” (separazione etnica) hanno gettato il panico nei media e in parte del pubblico francese, a tutta delizia dei demagoghi, pronti a enfatizzare questi soggetti altamente emotivi in modo da continuare a determinare l’ordine del giorno. Fintanto che lo faranno, nessuno dei problemi fondamentali sarà dibattuto seriamente, anche se molto dipende dalla loro risoluzione.

L’assassinio di dodici giornalisti il 7 gennaio negli uffici di Charlie Hebdo e poi l’uccisione di quattro persone, tutte ebree, in un supermercato kosher, hanno creato un clima di paura. In questi crimini è stato invocato l’Islam, ma finora essi non hanno provocato il ciclo di odio e rappresaglia su cui contavano quelli che li hanno ispirati.

Gli assassini hanno avuto in parte successo: sono state attaccate moschee e sinagoghe sono state poste sotto sorveglianza della polizia; alcuni giovani mussulmani radicalizzati (e non rappresentativi), con solo una conoscenza abbozzata delle regole della loro fede, sono stati tentati dalla jihad, dal nichilismo e dalla lotta armata. Ma gli assassini hanno anche fallito: hanno dato nuova vita alla pubblicazione che volevano distruggere. Il risultato delle battaglie maggiori dipenderà dalla resilienza della società francese e dalla rinascita di una speranza collettiva in tutta Europa.

Dobbiamo essere modesti. Non è sempre possibile analizzare gli eventi mentre si svolgono. Smettere di pensare significa mettere a rischio la comprensione, rischiare di sorprendere e di essere sorpresi. Gli stessi attacchi sono stati una sorpresa; altrettanto le reazioni. Sinora i francesi hanno assorbito lo shock; hanno dimostrato pacificamente in massa e non si sono fatti influenzare troppo dal linguaggio bellicoso di Manuel Valls; non c’è stata alcuna riduzione della democrazia, come avvenuto negli USA dopo l’11 settembre, anche se è stupido e pericoloso mandare in carcere adolescenti solo per aver espresso opinioni provocatorie.

Tuttavia è difficile immaginare le conseguenze di un altro grosso attacco, per non parlare di molti. Potrebbero creare una linea permanente di frattura tra gruppi le cui politiche sarebbero definite in conformità alle loro origini, cultura e religione. E’ su questo che contano i jihadisti e l’estrema destra (compresa l’estrema destra israeliana): il grande pericolo di uno scontro di civiltà. Prevenire tale scenario non implica che dovremmo immaginare una società miracolosamente pacificata – come sarebbe possibile con i ghetti, le linee di frattura geografiche e la violenza sociale? – bensì che dovremmo scegliere le battaglie giuste per affrontare i problemi. Questo richiede urgentemente una nuova politica europea. In Grecia e Spagna la battaglia è in corso.

In Grecia la battaglia è cominciata

Al primo ministro greco, Antonis Samaras, non c’è voluto molto per sfruttare l’aggressione a Charlie Hebdo: “Oggi a Parigi c’è stato un massacro. Tuttavia qui alcuni continuano a incoraggiare ulteriore immigrazione illegale e a promettere naturalizzazione”. Nikos Filis, direttore di Avgi, un giornale che ha come azionista principale la coalizione della sinistra radicale Syriza (2) è giunto a una conclusione diversa: “L’attacco può orientare il futuro dell’Europa, o verso la Le Pen e l’estrema destra o verso un approccio più razionale al problema. Poiché il bisogno di sicurezza non può essere soddisfatto dalla sola polizia”. Tale punto di vista non conquista più voti in Grecia di quanti ne conquisti altrove in Europa. Vassilis Moulopoulos, consigliere di Alexis Tsipras per la comunicazione, lo sa ma è sereno: “Se Syriza fosse stata meno intransigente nello schierarsi per i diritti degli immigrati, avremmo già il 50% dei voti. Ma questo è uno dei pochi punti su cui siamo tutti d’accordo”.

Le politiche economiche in Europa sono state fallimentari per anni, in nessun luogo più che in Grecia e Spagna. In altri paesi della UE i partiti al governo appaiono rassegnati all’ascesa dell’estrema destra e contano su di essa per restare al potere unendosi contro di essa. Ma Syriza e Podemos hanno aperto una prospettiva nuova (Vedere Now can Podemos win in Spain? [Ora Podemos può vincere in Spagna?]

 ) Nessun altro partito europeo di sinistra ha fatto progressi così rapidi. Cinque anni fa esistevano a malapena ma oggi appaiono candidati credibili all’esercizio del potere; e possono essere in grado di relegare a un ruolo di supporto i partiti socialisti dei loro paesi – che condividono la responsabilità del disastro finanziario generale dal 2008 -  proprio come il Partito Laburista britannico soppiantò il Partito Liberale e il Partito Socialista Francese soppiantò il Partito Radicale (3). Tali cambiamenti sono stati permanenti.

Con la sfida di spiazzare i partiti socialdemocratici in parte vinta, rimane la domanda: la vittoria di una nuova sinistra in Grecia, e forse in Spagna, sarebbe in grado di produrre un riorientamento generale della politica europea? In Grecia gli ostacoli sono enormi. Syriza non ha alleati politici in patria e non ha il sostegno di alcun governo europeo. La lotta sarà molto più dura di quella francese del 2012, quando un neoeletto Francois Hollande aveva potuto reclamare non solo il mandato dell’elettorato francese ma anche la responsabilità del 19,3% del PIL della UE, in confronto con il 2,3% in Grecia e il 12,1% in Spagna (dati 2013) al fine di “rinegoziare” il patto europeo di stabilità, come si era impegnato a fare.

Syriza ha assunto l’ottica più ottimistica che la vittoria di un partito di sinistra in Grecia o Spagna quest’anno potrebbe innescare l’incendio. “L’opinione pubblica europea è più favorevole a noi”, dice Filis. “E anche le élite europee riconoscono che le strategie perseguite sin qui hanno determinato un’impasse. Nel loro stesso interesse, stanno prendendo in considerazione altre politiche, perché vedono che l’eurozona così com’è impedisce all’Europa di svolgere un ruolo globale”.

Incertezze della UE come ultima speranza

Dopo un inverno duro una singola rondine promette primavera. Può essere per questo che la dirigenza di Syriza individua una promettente differenza di opinioni tra la cancelliera tedesca Angela Merkel e Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea (BCE). Syriza interpreta il massiccio acquisto di debito sovrano (quantitative easing, alleggerimento quantitativo), annunciato recentemente dalla BCE, come un segnale che la banca ha riconosciuto che l’austerità non porta da nessuna parte.

Ad Atene ciò non è troppo chiaro in nessun luogo. Ma la crudeltà dell’austerità, con conseguenze sociali e sanitarie che si estendono a fame, freddo e aumenti di malattie infettive e suicidi, non si traduce necessariamente in un cambio di politica (4). Gli architetti dell’austerità sono ben pagati per avere nervi d’acciaio.

Gli indicatori macroeconomici sono poco più positivi. Dopo cinque anni di trattamento shock, il tasso di disoccupazione della Grecia è triplicato (25,5%); il suo tasso di crescita, dopo una caduta del 26% tra il 2009 e il 2013 è stato di un mero 0,6% nel 2014; e la principale priorità del programma di austerità consistente nel ridurre un debito del 113% del PIL, lo ha fatto in realtà crescere al 174%. Ciò era prevedibile, visto che il debito è espresso come percentuale della ricchezza nazionale, che è crollata. Mariano Rajoy, i cui risultati in Spagna sono quasi altrettanto impressionanti, si è recato ad Atene per appoggiare Samaras: “I nostri paesi hanno bisogno di stabilità”, ha detto, “non di cambiamenti improvvisi o incertezze”.

Ma in Grecia le “incertezze” sono oggi quasi l’ultima speranza. La politica di Samaras, così come stilata dalla UE, significherebbe altri tagli fiscali alle maggiori imprese e ai percettori di redditi medi ed elevati, altre privatizzazioni e altre “riforme” del mercato del lavoro: anche maggiori avanzi di bilancio per tentate (senza successo) di rimborsare il debito, anche quando ciò richiede tagli a tutti i servizi pubblici.

Prima delle elezioni generali in Grecia, il portavoce economico di Syriza, Yiannis Milios, ha supposto che Samaras (con il sostegno dei socialisti) avesse fissato un obiettivo di avanzo di bilancio superiore al 3% del PIL per un periodo indeterminato (3,5% nel 2015, 4,5% nel 2017, 4,2% successivamente): “E’ del tutto irrazionale”, ha detto Milios, “a meno che non avesse deciso una politica di austerità infinita”. Per la verità Samaras ha deciso poco: ha attuato i termini dell’accordo imposto al suo governo dalla troika di FMI, Commissione Europea e BCE.

Possibilità di Syriza

Qual è l’alternativa di Syriza? Un programma per “affrontare la crisi umanitaria” che ridistribuirebbe la spesa e le priorità nell’ambito del bilancio esistente. Syriza ha calcolato esattamente che l’elettricità, i trasporti pubblici e cibo d’emergenza gratuiti per i più poveri e vaccini per i bambini potrebbero essere finanziati da misure più aggressive anticorruzione e antifrode. Il governo conservatore uscente ha ammesso che esse hanno sottratto alle casse pubbliche almeno 10 miliardi di euro l’anno.

“Le opere pubbliche costano da quattro a cinque volte di più che nel resto d’Europa”, dice Filis, e non solo perché la Grecia ha così tante isole e un interno montagnoso. Milios segnala che “55.000 greci hanno trasferito ciascuno più di 100.000 euro all’estero, anche se il reddito dichiarato da 24.000 di loro non avrebbe consentito loro una simile somma. Tuttavia negli ultimi due anni solo 407 di questi truffatori, segnalati dal FMI alle autorità di Atene, sono stati indagati dalle autorità fiscali”.

Oltre al programma di emergenza umanitaria di Syriza (stimato in 1,882 miliardi di euro) ci sono misure sociali pianificate per resuscitare l’economia: la creazione di 300.000 posti di lavoro nel settore pubblico con contratti annuali rinnovabili, il ripristino del salario minimo al suo valore del 2011, l’aumento delle pensioni minime (vedere Fresh Hope in Greece [Nuova speranza in Grecia]). La maggior parte del piano, che include anche sgravi fiscali e cancellazione dei debiti per le famiglie e le aziende più pesantemente indebitate, è dettagliata nel “Programma di Salonicco” (5) così lo sono i costi: 11,382 miliardi di euro, finanziati rigenerando un importo equivalente di nuove entrate.

Queste misure non sono suscettibili di negoziazione con altri partiti o con i creditori del paese, insiste Milios: “Sono questioni di sovranità nazionale; non aggiungeranno nulla al nostro deficit. Intendiamo perciò attuare questa politica quale che sia l’esito delle rinegoziazioni del debito”.

Quando si parla dei 320 miliardi di euro del debito greco Syriza è, tuttavia, incline a negoziare. Ma anche qui sta scommettendo sul fatto che numerosi stati ne seguano l’esempio. “Il problema del debito”, dice Milios, “non è un problema greco, bensì un problema europeo. La Francia e altri paesi stanno attualmente riuscendo a rimborsare i loro creditori, ma solo perché i loro tassi d’interesse sono estremamente bassi. Ciò non durerà. Tra oggi e il 2020 è in scadenza per essere rimborsato metà del debito sovrano della Spagna.”

In questa situazione la conferenza europea sul debito sollecitata da Tsipras due anni fa su questa pubblicazione (6) potrebbe diventare una prospettiva realistica. Il ministro delle finanze dell’Irlanda appoggia l’idea ed essa ha un precedente storico nella conferenza del 1953 che cancellò i debiti di guerra della Germania, compresi quelli dovuti alla Grecia. Syriza spera che la conferenza che sollecita offrirà “la soluzione alternativa che seppellirà l’austerità una volta per tutte”.

Syriza intende ottenere questo mediante una parziale cancellazione del debito, riprogrammando il resto e trasferendo il grosso alla BCE, che lo rifinanzierebbe. Dopotutto la BCE ha salvato banche private, fino a liberarle dei debiti greci, la maggior parte dei quali è stata ricollocata presso i membri dell’eurozona. Ciò dà a tali stati – specialmente a Germania e Francia – un particolare potere. Angela Merkel sta già affermando che il contribuente tedesco sarebbe la vittima principale di qualsiasi rinegoziazione del debito greco, poiché la Germania ne detiene il 20%, e il suo ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble, ha recentemente ripetuto che lei non lo accetterebbe. Come accade così spesso, la posizione della Francia è più confusa: ha chiesto che Atene “rispetti gli impegni che ha assunto” (Hollande) e “continui ad attuale le misure politiche ed economiche necessarie” (ministro dell’economia Emmanuel Macron) e tuttavia ha mostrato un’apparente disponibilità a contemplare la ristrutturazione o la riprogrammazione del debito greco (ministro delle finanze Michel Sapin).

“Le cavie della troika”

Non è solo in Germania che la destra europea sta suonando l’allarme. Il primo ministro finlandese Alexander Stubb ha opposto un “sonoro no” a qualsiasi richiesta di cancellazione del debito, e il quotidiano conservatore francese Le Figaro ha chiesto: “La Grecia intende avvelenare di nuovo l’Europa?” Due giorni dopo ha tirato le somme: “Ogni cittadino francese dovrebbe pagare 735 euro per cancellare il debito greco” (7). (Il giornale è meno agile con la calcolatrice quando si tratta di sommare il costo degli scudi fiscali di cui beneficiano i proprietari dei media, le sovvenzioni ai produttori di armi – uno di essi, Dassault, è proprietaio di Le Figaro – o le sovvenzioni finanziarie alla stampa).

La Merkel ha minacciato la Grecia di espulsione dall’euro se il suo governo violerà le discipline finanziarie o di bilancio cui la Germania è così attaccata. I greci vogliono sia allentare le politiche di austerità sia restare nella moneta unica. Tali desideri sono condivisi da Syriza (8), perché un piccolo paese esausto non può combattere contemporaneamente su tutti i fronti. “Siamo stati le cavie della troika. Non vogliamo diventare le cavie di un’uscita dall’euro”, dice Valia Kaimaki, giornalista con collegamenti nella Syriza. “Che vada avanti un paese più grande, come la Spagna o la Francia”.

Moulopoulos ritiene che “senza il sostegno europeo, non sarà possibile fare assolutamente nulla”. E’ per questo che Syriza attribuisce importanza al sostegno di forze oltre la sinistra radicale e i Verdi, in particolare i socialisti. Tuttavia i greci hanno fatto esperienza delle rese della socialdemocrazia da quando Andrea Papandreou costrinse il suo partito a operare una grossa svolta in direzione del neoliberismo trent’anni fa. “Se fosse rimasto a sinistra, non ci sarebbe stata nessuna Syriza”, dice Moulopoulos. “Anche in Germania, quando Oskar Lafontaine si dimise dal governo [nel 1999] espresse il rammarico che la socialdemocrazia era divenuta incapace persino delle riforme più insignificanti. Globalizzazione e neoliberismo dal volto umano l’hanno completamente distrutta”.

In tal caso non è problematico sperare che i socialdemocratici europei accoglieranno le richieste della sinistra greca e contribuiranno a contrastare l’intransigenza della Merkel? La vittoria elettorale di Syriza, o di Podemos in Spagna, potrebbero dimostrare, contrariamente a quanto dicono Hollande o Matteo Renzi in Italia, la fattibilità di una politica europea che rifiuti l’austerità. Ciò sarebbe una sfida maggiore della destra tedesca.

I pochi mesi prossimi possono decidere del futuro della UE. Prima che Hollande salisse al potere la scelta era tra audacia e stagnazione (9). Oggi la minaccia è molto maggiore. “Se non cambiamo l’Europa lo farò l’estrema destra al posto nostro”, ha avvertito Tsipras. Essere audaci è diventato ancor più urgente. Il compito della sinistra in Grecia e in Spagna, da cui tanto dipende, è già abbastanza difficile senza caricarlo anche della responsabilità pesante di difendere il destino democratico dell’Europa e di evitare uno “scontro di civiltà”. Ma è questo che è in gioco.

“La Grecia, l’anello più debole dell’Europa, potrebbe diventare il collegamento più forte della sinistra europea”, dice Moulopoulos. Se non la Grecia, forse la Spagna. Entrambi i paesi insieme, comunque, non sarebbero troppi per combattere la paura e la disperazione che alimentano la propaganda dell’estrema destra e il nichilismo jihadista. “E un sogno modesto e pazzo”, come scrisse il poeta Louis Aragon. La speranza è che la politica europea smetta di condannarci alla giostra su cui al potere si succedono sempre gli stessi e perseguono le stesse politiche con la stessa impotenza. La loro storia è diventata la nostra minaccia. Ad Atene e a Madrid un cambiamento di corso finalmente?

 NOTE

 (1) Vedere Serge Halimi “Behind the burqa” [Dietro il burqa], Le Monde diplomatique, edizione inglese, aprile 2010.

(2) Avgi, che pubblica l’edizione greca di Le Monde diplomatique, ha stampato “Je suis Charlie” in prima pagina l’8 gennaio. L’esperienza storica (sotto la dittatura militare 1967-74) della sinistra greca la rende particolarmente sensibile alla libertà di espressione.

(3) Nel 1922 nel Regno Unito e nel 1936 in Francia.

(4) Vedere Noelle Burgi, “Greece in chaos[Grecia nel caos], Le Monde diplomatique, edizione inglese, dicembre 2011.

(5) Disponibile in inglese: “Syriza: The Thessaloniki programme[Syriza: il programma di Salonicco].

(6) Vedere Alexis Tsipras “The Greek revival plan[Il piano di rinascita della Grecia], Le Monde diplomatique, edizione inglese, febbraio 2013.

(7) Editoriale “Le vent du boulet” (Per un pelo), Le Figaro, Parigi, 6 gennaio 2015, e Le Figaro , 8 gennaio 2015.

(8) Per una confutazione vedere Frédéric Lordon “L’alternative de Syriza: passer sous la table ou la renverser”, La pompe à phynance, 19 gennaio 2015.

(9) Vedere Serge Halimi “Sacking Sarkozy won’t be enough” [Licenziare Sarkozy non sarà sufficiente], Le Monde diplomatique, edizione inglese, aprile 2012.

 


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

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Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/a-modest-and-crazy-dream/

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