Fonte: Pauper Class

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04 Giugno 2015

 

Perchè l’astensionismo è un falso problema

di Il Poliscriba

 

… una società tenuta insieme soltanto dal legame del mercato, in cui la decisione politica comunitaria ha di fatto cessato di esistere.

 

Ho letto recentemente in una bellissima intervista autobiografica di Alain de Benoist una frase di Bergson del 1936 che non conoscevo: “Su dieci errori politici, nove consistono semplicemente nel continuare ancora nel credere vero ciò che ha cessato di esserlo”.

Bisognerebbe ricordarlo ai politologi. E’ quindi inutile condannare moralisticamente gli astensionisti oppure coloro che si rifugiano nel grillismo (o Leghismo ndr).

Essi prendono semplicemente atto della radicale inutilità della tensione politica.

Il vero problema, tuttavia, sta nell’immaginare come possa continuare nel tempo e riprodursi una società tenuta insieme soltanto dal legame del mercato, in cui la decisione politica comunitaria ha di fatto cessato di esistere.

 

Costanzo Preve

A fronte di queste affermazioni decise e prive di dubbio filosofico del poco noto e ancor meno letto filosofo marxista Preve, possiamo senza tema di smentita affondare ancor più il coltello nella ferita insanabile che separa le carni del tessuto sociale da ciò che fu l’espressione politica elettorale, il voto, e dal suo prodotto, la rappresentanza politica stessa.

Tra i nove errori politici declarati dal Bergson, dobbiamo aggiungerci la chiosa del Preve:

Il credere, come puro atto fideistico, che la decisione politica comunitaria continui ad esistere.

Il fatto disgustoso e clientelare filmato dai grillini dinanzi alle sezioni elettorali campane delle ultime regionali, distribuzione di 20 euro per ogni voto a De Luca, è moralmente inaccettabile, ma mercatisticamente coerente.

Una società, che altrimenti sfuggirebbe al voto, si può e si deve comprare.

Ma questo fenomeno non è recente, è sempre stato l’estremo rimedio per cercare di risolvere il male via via estremo del menefreghismo italico alla partecipazione non-utilitaristica del processo democratico.

Si mercanteggiano le elezioni ad ogni grado della scala organizzativa istituzionale, comuni, provincie, regioni, stato, da quando il suffragio universale è stato espropriato del suo valore di diritto liberaldemocratico, per entrare a far parte del cespito burocratico-amministrativo nella sua forma di eguaglianza matematica: 1 testa, 1 voto, 1 affare.

Nessuna novità, nessuno scandalo.

Il mercato ha già fatto scempio della Costituzione, e il broglio elettorale, sintomo di grave leucemia nella esangue circolazione dei votanti alle urne, ne è espressione già dalla Prima Repubblica: è il do ut des (non ti do niente per niente) che ha oliato i meccanismi di produzione e riproduzione del vecchio sistema capitalistico materiale.

Tutto bene finchè ha seminato ricchezza e mantenuto vari apparati (sindacalismo incluso), a fronte di un certo traino economico e valutario, poi, quando la torta del lucro e del benessere si è ridotta, fino all’ultima fettina odierna, la diga è saltata.

Oggi che quel capitalismo si è trasferito altrove, e di esso è rimasto l’immateriale, digitalizzato, ultrafinanziario speculare, anche i teatrini ignobili campani, o gli sciami di presunti vacanzieri astensionisti, sembrano pietose comparsate da psicodramma macchiettistico, una sorta di rabbia melanconica che troverebbe nella maschera di Pulcinella degna rappresentazione.

Il rifugio nel “populismo” che, a mio avviso, non esiste, è soltanto una comoda eziologia del malessere sociale, è in effetti una reazione difensiva, una ricerca di protezione sociale di natura paternalistica, in sostituzione della disgregazione famigliare, ecclesiastica e partitica di massa dei tempi che furono.

Scopo dei nuovi leader non è appunto politico ma mercantile. Non si vende neanche più un’idea, perché l’ideologia è stata vittima di matricidio e, secondo l’ottima analisi della Klein sui Logo aziendali delle multinazionali, il fine dei nuovi apparatcik è vendere un marchio.

Il PD è o dovrà essere – secondo i suoi “spin-doctor’s”, manipolatori mentali in neolingua – per i suoi sostenitori affetti da pddiotismo, un Logo svuotato di contenuti politici ma riempito di rimandi mistico-affettivi. E presto, quando gli elettori scemeranno del tutto, per raggiunti limiti di età e coglioneria, si potrà collocare in Borsa, con l’idea di agganciarne i profitti a fondi pensioni da affiancare a quelle misere elemosine previdenziali che gli stupidi elettori di oggi si ritroveranno nelle tasche di domani. A livello internazionale la sua appetibilità sarà garantita da una rispolverata design, made in Italy e very vintage.

O meglio, la collocazione in Borsa è già avvenuta per tutti i partiti della Prima Repubblica, transitati nella Seconda, quando non erano le facce a rappresentare il potere dei cittadini, ma le banche, gli azionisti, i capitali, la Chiesa e le mafie che effettivamente le eleggevano, imponendole al pubblico sempre più teleidiota.

Il vero problema, che non è la responsabilità morale degli astensionisti che non possono scegliere in un agone politico senza scelta, è che questa Terza Repubblica smaterializza le elezioni, il consenso, il significato della politica comunitaria e la sua tensione, come afferma Preve, ed è pronta, visto il numero sempre crescente della disaffezione ai contenuti dei simboli partitici, a mantenerne in vita il mero Marchio, facendo leva su una nostalgia di appartenenza che, per concretizzarsi in un guadagno, dovrà promettere “favolosi” dividendi, assumendo la forma della più grande balla del mercato finanziario, montata ad arte nel pieno rispetto dello Schema Stronzi.

Oppure, in perfetto stile magna magna, si voterà pagando un ticket, un’estensione della forma di finanziamento delle primarie PD e dei partiti (mai abolito), avvalorando la tesi che la privatizzazione delle elezioni sarà l’unico modo per garantire l’elezione stessa, la libertà e il diritto di voto, e la concorrenza leale tra candidati.