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22/07/2015

 

Dopo la Grecia, il prossimo problema dell’Europa sarà l’Irlanda

di Luigi Pandolfi

 

L’austerità ha funzionato a Dublino? A giudicare dai dati sulla povertà e dal balzo del Sinn Fein, nazionalista e anti-liberista, si direbbe di no

 

A proposito dell’atteggiamento delle istituzioni europee nei confronti del governo di Atene, si è detto che esso sarebbe da leggere alla stregua di un monito nei confronti di altri paesi che intendessero da qui in avanti mettere in discussione l’attuale modello di integrazione, basato sul binomio neoliberismo-austerità. Tra questi paesi c’è senz’altro l’Irlanda, dove la crisi ha avuto caratteristiche, per così dire, da manuale e molto duri sono stati gli anni del cosiddetto “risanamento”.

Parliamo di una catastrofe finanziaria seguita a vent’anni di sviluppo drogato dell’economia, quando l’Irlanda, per i media internazionali, era semplicemente la “Tigre celtica” ed uno dei tanti paradisi fiscali sparsi per il pianeta. Una storia di credito facile e di bolle immobiliari, di bassa tassazione e di ingenti investimenti esteri, conclusasi con un crollo verticale dell’economia e con centinaia di migliaia di cittadini finiti sul lastrico e nel gorgo dei debiti. Il resto della storia porta il nome di austerità, prestiti da parte della Troika in cambio di tagli alla spesa pubblica e di nuove tasse, di grandi sacrifici per la popolazione.

E ora? I dati a disposizione parlano di un’economia che è tornata a crescere e di una disoccupazione in calo, ancora sopra i livelli pre-crisi, ma al di sotto della media dell’eurozona. La prova, per molti analisti, che la cura del rigore ha dato i suoi frutti, smentendo i profeti di sventura.

Tutto risolto, dunque? A guardare bene la situazione, si direbbe proprio di no. L’Irlanda è un paese con un’economia “duale”, divisa tra un settore hi-tech in mano alle multinazionali, soprattutto americane, ed i comparti tradizionali che fanno la vera ossatura del sistema produttivo nazionale. Il primo è di nuovo in espansione, i secondi ancora fermi al palo. Sarebbe difficile, altrimenti, spiegare il rapporto tra crescita delle esportazione e del Pil da un lato e i dati sulla povertà e l’esclusione sociale dall’altro, che allineano l’Irlanda ai livelli di Grecia, Portogallo e Romania.

Se c’è una correlazione tra condizioni generali di un Paese e le tendenze elettorali dei suoi cittadini, questa potrebbe spiegare, nel caso irlandese, il consenso di cui godrebbe il Sinn Fein, storica formazione indipendentista e repubblicana, che negli ultimi tempi ha fortemente accentuato il suo profilo anti-liberista.

 

Secondo gli ultimi sondaggi, risalenti allo scorso dicembre, il Sinn Fein si attesterebbe tra il 25% il 30% dei consensi, numeri che ne farebbero il primo partito d’Irlanda. Un successo che si spiega con l’allargamento della sua tradizionale base elettorale, più popolare, operaia, a pezzi di classe media impoverita dalla crisi e dalle dure politiche di austerità di questi anni.

 

Il suo programma coniuga temi sociali e difesa degli interessi nazionali, secondo uno schema molto diverso da quello delle altre formazioni della sinistra radicale europea, con le quali, nondimeno, il rapporto in questi anni è diventato molto più stretto. Se da un lato, infatti, il Sinn Fein condivide la battaglia di Syriza, o di Podemos, per far cessare le politiche di austerità in Europa e aprire una discussione complessiva sui debiti dell’eurozona, dall’altro continua a sostenere che una svolta di politica economica e sociale non possa che avere come teatro gli stati nazionali. D’altronde, al referendum del 2008 sulla “costituzione europea”, fu tra le forze più attive e determinate del “fronte del no”.

E il suo programma interno? I punti principali sono un maggiore intervento pubblico in economia, per rilanciare l’occupazione, la sanità pubblica e la scuola; via la tassa sulla casa (property tax) e quella sull’acqua, sgravi fiscali per i ceti più deboli, più infrastrutture e servizi nelle aree rurali, protezione per gli agricoltori. Idee, propositi, che fanno a pugni con le attuali regole del patto di bilancio europeo (fiscal compact), rese ancora più dirompenti dall’approccio “nazionalista” al tema del “come stare in Europa”.

Lo scorso 5 luglio, giorno del referendum indetto dal governo di Alexis Tsipras, una delegazione del Sinn Fein era ad Atene, per portare la solidarietà, il sostegno, al popolo greco nella sua battaglia contro i cosiddetti “creditori”. L’esito della “trattativa”, com’era inevitabile, ha lasciato anche a loro l’amaro in bocca, ma è stata anche l’occasione per rinnovare la loro critica al governo guidato da Enda Kenny, giudicato del tutto subalterno alla Germania ed ai suoi alleati, anche contro gli stessi interessi dell’Irlanda.

Molto chiara sul punto Mary Lou McDonald, vicepresidente del partito: «Syriza ha lottato fino all’ultimo respiro nell’Eurogruppo. Se c’è uno sconfitto, per quanto ci riguarda, è il governo di Enda Kenny e Joan Burton: li abbiamo visti come docili cagnolini al tavolo Ue, incapaci di lottare per ciò che è necessario, a cominciare dalla questione del debito».

 

Le elezioni in Irlanda sono previste fra un anno, nel 2016.

Non è necessario essere abili bookmakers per scommettere che una vittoria del Sinn Fein avrebbe effetti travolgenti sull’attuale assetto dell’Unione.

 


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