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09 aprile 2015

 

Tortura, la ricerca bipartisan di un’arma spuntata

di Carlo Perigli

 

Da Fassino e Dini fino a Pecorella e Castelli: come i governi di centrodestra e centrosinistra hanno provato a far fessa la Convenzione contro la tortura

 

Considerato il dibattito pubblico che si è scatenato dopo la sentenza Cestaro vs. Italia, è bene precisare un punto: non è vero che l’Italia non si è mai interessata dei suoi obblighi internazionali per quanto riguarda la tortura, che si è svegliata di colpo solamente quando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha finalmente chiamato le cose con il loro nome. Dal 1989, anno in cui è stata ratificata la Convenzione contro la Tortura, l’argomento si è più volte presentato nel dibattito politico, ricevendo un trattamento che il lettore potrà tranquillamente giudicare, cogliendo l’occasione per maturare un opinione anche sulle dichiarazioni sdegnate che alcuni esponenti di lungo corso della classe politica nostrana si sono apprestati a rilasciare.

Un’opinione sul reato di tortura l’Italia ce l’aveva già nel 1990 e nel 1994, quando, nel primo come nel secondo rapporto inviato al Comitato contro la Tortura, viene specificato che un reato autonomo di tortura non è necessario, poichè tutte le fattispecie che lo compongono sono già previste nel nostro codice penale. Poco importa se si tratta di reati comuni e non di un crimine internazionale, con tutte le differenze che questo comporta per quanto riguarda giurisdizione, prescrizione e ammontare della pena, nè tantomeno che la Convenzione, ratificata solo pochi anni prima imponesse un obbligo (art. 4.1), non una scelta.

Pacta sunt servanda –  i patti devono essere osservati – e il Comitato non perde occasione per farlo notare. Così, nella XIII legislatura (1996-2001) l’Italia ci riprova, attraverso la presentazione di 5 proposte di legge – Cicu, Semenzato, Salvato, Lo Curzio e Fassino-Dini. Nonostante nessuna di queste sia mai stata discussa in Parlamento, la Fassino-Dini è particolarmente rilevante per due ordini di motivi: è la prima ed ultima proposta di natura governativa in materia ed è anche la sola, almeno in questo periodo, a prevedere la tortura non come un reato autonomo, ma come aggravante. In altre parole, il ministro degli esteri e quello della giustizia dell’epoca proposero una legge sulla tortura che non rispettava gli obblighi internazionali cui l’Italia era vincolata. Niente male no?

Cambiano i governi ma la musica è sempre la stessa; nella XIV legislatura (2001-2006) troviamo altri 7 disegni di legge presentati dai parlamentari – Ruzzante, Piscitello, Biondi, De Zulueta, Pianetta, Pianetta e Salvi. In seguito al dibattito in Commissione Giustizia e dopo aver ricevuto le osservazioni dal Comitato, venne calendarizzato in aula il progetto di legge n. 4990 (Pecorella), che prevedeva si l’introduzione di un reato autonomo di tortura, configurandolo tuttavia, in seguito agli emendamenti presentati da Lussana e Rossi (Lega Nord), solamente a fronte di una condotta reiterata. Neanche questa volta la norma proposta è in linea con gli obblighi internazionali, ma poco importa, perchè tanto arriva la fine della legislatura e ogni progetto di legge naufraga con essa.

Altro giro, altra corsa, nella XV legislatura (2006-2008) emergono 4 proposte di legge (Pecorella, Forgione, De Zululeta e Suppa) e altrettanti disegni di legge (Biondi, Bulgarelli, Pianetta, Iovene). Sebbene un testo fosse stato approvato dalla Camera dei Deputati nel gennaio del 2006, la discussione al Senato non ha avuto luogo per via dell’improvvisa fine della legislatura. Inoltre, in maniera piuttosto curiosa, nei rapporti con il  Comitato contro la Tortura l’Italia decide di tornare indietro di 17 anni, comunicando che tutti gli obblighi stabiliti dalla Convenzione sono da considerarsi adempiuti e che  “il sistema giuridico italiano prevede sanzioni per tutte le condotte che possono essere considerate come rientranti  nella definizione di tortura stabilita dall’articolo 1 della Convenzione“.

Per farla breve quindi, non è vero che la politica si è ricordata della tortura solamente dopo la sentenza sulla Diaz. Prima delle dichiarazioni, degli slogan e dello sdegno, ci sono i fatti, come le 12 proposte di legge presentate nel corso della XVI legislatura (2008-2013), mai arrivate in Parlamento. In questo periodo Roberto Castelli, ministro della Giustizia dal 2001 al 2006, dichiara a Repubblica che l’assenza di una legge sul reato di tortura è imputabile al “legislatore di sinistra che ha presentato un testo inaccettabile, in cui si parlava di torture di natura psicologica, per cui io potrei accusare di tortura Prodi visto che ogni volta che lo vedo mi sento male”. Peccato che la “mental suffering” non sia un’idea malsana di un fantomatico “legislatore di sinistra”, ma emerga direttamente dal dettato dell’articolo 1 della Convenzione.

Arriviamo infine all’anno scorso, con l’approvazione nel marzo 2014 del Ddl Manconi da parte del Senato, attualmente in attesa di passare alla Camera. Positivamente il testo non prevede più lo scempio della reiterazione della condotta, ma contempla la tortura come reato comune, inserendo la partecipazione di un pubblico ufficiale solamente come aggravante e non come parte integrante del reato. Sparisce dal testo l’omissione, mentre la pena va dai 3 ai 10 anni – da 4 a 12 se è coinvolto un pubblico ufficiale, una pena che difficilmente può essere considerata in linea con le richieste del Comitato, secondo cui l’Italia deve “assicurare che tali reati siano punibili da pene appropriate, che tengano conto della grave natura di tali atti“. Probabilmente, nella “migliore” delle ipotesi, avremo quella che il giudice Settembre ha già definito “un’arma spuntata”, la cui aderenza agli obblighi internazionali sarà senz’altro oggetto di discussione.

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Mercoledì, 08 Aprile 2015

La tortura in Italia? Quarant'anni di finti tonti

di Sergio Cararo

 

La sentenza della Corte Europea che ha condannato l'Italia per tortura sul caso della macelleria messicana alla Diaz nel luglio 2001 a Genova, apre una breccia che non deve essere rinchiusa. E' una breccia che attiene alla enormi zone d'ombra della storia recente del nostro paese, quelle di cui si è parlato poco e soprattutto male. Non perchè mancasse la materia, anzi e purtroppo ce n'è in abbondanza, ma perchè la ragion di stato ha spesso sigillato – anche con l'arresto dei giornalisti troppo curiosi – ogni tentativo di portare alla luce quella che non è stata una “eccezione” ma che per interi periodi è stata “regola” non scritta.

Nel pdf che potete aprire cliccando su La tortura in Italia, troverete un libro bianco – oggi introvabile - pubblicato tra mille peripezie nel 1982 da un gruppo di militanti, avvocati, familiari di detenuti, che spezzarono il black out sull'uso della tortura nel pieno degli “anni di piombo”. Furono mesi nei quali le denunce sui casi di tortura contro i militanti dei gruppi armati arrivavano numerose, in un clima plumbeo caratterizzato da arresti di massa, centinaia di rifugiati politici in Francia, divieti di manifestazione, persecuzioni e linciaggi mediatici contro i militanti della sinistra ancora attivi e sparutissimi gruppi di “garantisti” che diedero battaglia contro gli effetti dello “stato di emergenza” decretato nei fatti dal 1977 e consacrato negli anni successivi.

Il libro bianco sulla tortura in Italia prende le mosse con le prime notizie, come quella di Giuseppe Vesco che nel 1976, sotto tortura “confessò” l'uccisione di due carabinieri della caserma di Alcamo (Sicilia) accusando anche altre persone (Giuseppe Gullotta, Gaetano Santangelo, Vincenzo Ferrantelli), torturate a loro volta, che passarono 22 anni di carcere – come Gullotta – per poi scoprire che erano stati accusati ingiustamente dell'uccisione dei due carabinieri. Giuseppe Vesco, sempre nel 1976 fu poi trovato impiccato nella sua cella. Trenta anni dopo, nel 2006, un carabiniere Giuseppe Ollino rivelò che le confessioni erano state estorte con la tortura facendo riaprire il processo.

Il libro bianco, pubblicato nel 1982, ovviamente non disponeva di questa testimonianza emersa ventidue anni dopo, ma non aveva avuto bisogno di questo per aprire quel lungo dossier sulla tortura che riuscì fortunosamente ad essere poi pubblicato.

C'era poi stato il caso di Enrico Triaca, arrestato nel 1978 con l'accusa di essere il “tipografo” delle Br, sottoposto alla tortura con il metodo del water boarding. Anche questo caso di tortura venne ammesso con una sentenza solo nell'ottobre 2013 (trentacinque anni dopo) e, paradossalmente, a causa di un eccesso di arroganza del procuratore capo di Roma nel 1978 – il dott. Achille Gallucci – il quale di fronte alla denuncia della tortura da parte di Triaca lo denunciò a sua volta per calunnia nei confronti degli agenti di polizia, aprendo così – inconsapevolmente - un fascicolo giudiziario che altrimenti non sarebbe mai stato aperto ma archiviato.

Il “picco” delle torture venne raggiunto tra il 1981 e il 1982 nei confronti dei militanti delle Br o di altri gruppi clandestini che venivano arrestati. In particolare fu con il sequestro del generale statunitense Dozier, comandante di quella base militare Ftase di Verona - la base statunitense da cui il giudice Salvini ci dice che partirono molte delle operazioni stragiste in Italia. Nel tentativo di ottenere informazioni sul luogo dove era tenuto sequestrato il gen. Dozier, furono rotte tutte le formalità e la tortura esplose come pratica ricorrente e, nei fatti rivendicata dallo Stato nelle figure del ministro degli Interni, il quale negò in Parlamento le evidenze che andavano emergendo, potendo contare sulla complicità dell'opposizione (quel Pci del partito della fermezza). Le torture non risparmiarono neanche le donne prese prigioniere.

Nel 1982 due giornalisti , Piervittorio Buffa de L'Espresso e Luca Villoresi de La Repubblica, vennero arrestati a causa dei servizi pubblicati sulle torture inflitte ai militanti delle Br per non aver rivelato la loro fonte (che poi si rivelarono essere altri funzionari di polizia). Per decenni sono stati l'unico caso di rottura della congiura del silenzio sull'uso della tortura in Italia.

La classe dirigente di questo paese, intendendo con essa la casta politica, i funzionari dello Stato e la casta giornalistica, hanno sistematicamente omesso, coperto, negato quello che oggi viene certificato dalla Corte Europea di Giustizia sull'uso della tortura nel nostro paese. Qui e là si aprono talvolta delle breccie che non hanno però conseguenze coerenti. I vertici della polizia coinvolti nei fatti di Genova fanno carriera e gli agenti coinvolti nei casi finiti nei tribunali spesso restano in servizio, con la prescrizione a fare da colpo di spugna.

In questi anni ci è capitato spesso di incontrare esuli o militanti della sinistra argentina e di avere l'impressione che molti, passati nelle mani dei torturatori della giunta militare, avessero rimosso l'orrore su quanto accaduto. Ma era la rimozione delle vittime, qui assistiamo alla rimozione dei carnefici, il che non è la stessa cosa.

Questo paese non ha mai trovato il coraggio civile e politico di guardare dentro le proprie zone di tenebra, ha tenuto gli armadi della vergogna girati con le ante chiuse verso i muri, ha depotenziato ogni sentenza sulle stragi di stato. C'è un buco nero nel fare i conti con la propria storia recente, che ha minato sia la Prima che la Seconda Repubblica. Anche se stavolta, nel caso della tortura, “ce lo dice l'Europa”, appare difficile intravedere che l'attuale classe dirigente sappia fare di meglio, perchè di quel buco nero ne è consapevole e volenterosa continuità.