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Lunedì 27 Aprile 2015

 

L’eccedenza umana

 

È difficile assumere una chiave di lettura che ci permetta di dare coerenza a una situazione caotica che mette alla prova le categorie analitiche con le quali proviamo a leggere questo mondo, le sue contraddizioni e le sue linee di fratture potenziali, sopite o represse.

Alle frontiere dell’Europa, masse d’uomini e donne tentano di fuggire dalla povertà e dalle guerre coscientemente generate dall’arroganza occidentale negli ultimi vent’anni d’interventi umanitari in nome della lotta al terrorismo, espropriazioni delle risorse in nome del mercato e massacri in nome della pace. È uno stato di guerra permanente le cui schegge in piccolissima parte (altro che invasione) rimbalzano fino qui.

Dentro la Fortezza, la metà dei giovani è disoccupata e vive di forme di sussistenza che si appoggiano su un welfare familistico la cui capacità a fungere da metaregolatore della precarietà è strutturalmente in declino (chi manterrà i giovani quando gli ultimi “garantiti” saranno andati in pensione?). Una massa ormai mobilitata in uno stato di formazione permanente in cui l’unica skill da assimilare è azzannare il prossimo ingoiando più merda di tutti. Uno su mille ce la fa. A trovare un lavoro sottopagato, stressante e sempre in bilico.

Nel frattempo, le ultime rigidità del mercato del lavoro sono smantellate in nome della competitività e della necessità di rilanciare l’occupazione, come se anni di progressiva precarizzazione di contratti e di distruzione del welfare non avessero dimostrato che la disoccupazione è direttamente proporzionale alla “flessibilizzazione”.

Centrale è la “crisi” non come fase economica ma come dispositivo che da strumento contingente si fa stato di governo permanente di queste eccedenze umane. Governo di processi materiali con l’approvazione di misure “urgenti” che spingono sempre più in là i meccanismi d’impoverimento, di guerra alle frontiere e di saccheggio dei territori. Ma anche crisi come costruzione discorsiva che abbassa l’asticella dell’accettabile sempre in più in basso, impedendo l’emergere di un piano ricompositivo basato sul rifiuto delle proprie condizioni di esistenza nonostante il loro continuo peggioramento.

L’organicità del capitale tende sempre più a disfarsi del lavoro vivo in favore di meccanismi di accumulazione para-schiavistici e di operazioni puramente estrattive di devastazione ambientale di cui l’Expo è solo il prodromo.

È ormai incontestabile che il passaggio a forme più “alte” del capitalismo non si traduce in tempo liberato dal lavoro ma in una disponibilità totale verso forme di lavoro sempre più “basse”. All’intermittenza dei momenti di effettiva occupazione corrisponde una linearizzazione del tempo di vita, subordinato in ogni suo poro alla costruzione di un sé lavorante ma mai effettivamente lavoratore. È il paradosso di Achille e la tartaruga ai tempi di Expo. Non è un caso che il Corriere della sera, a poco più di una settimana dall’evento, sbraitava contro i giovani in cerca di lavoro, accusati di non essere abbastanza reattivi nel mettersi a disposizione, anima e corpo, del mega-evento milanese – tra l’altro confermandoci una volta di più che vivremmo nel solo paese in cui la crisi è perpetrata dai giovani schizzinosi e non dai banchieri.

La “valorizzazione” delle persone è complementare alla “valorizzazione” dei territori in un meccanismo che fa della capacità di “raccontarsi” il preludio alla possibilità di “sapersi vendere” per sopravvivere. Mangiare merda ma sorridendo e ringraziando.

Il corollario alla retorica dell’auto-valorizzazione permanente è l'ingiunzione ad ucciderci – letteralmente – tutti a vicenda. Sono le "soluzioni" proposte dei vari Salvini, quelli per cui il problema non è la povertà ma i poveri, soprattutto se “abusivi”, soprattutto se “stranieri”. Nella propaganda dei fascioleghisti, per vivere meglio non bisogna andare a prendere la ricchezza dov’è ma fare in modo che chi ha meno di noi non abbia proprio niente. È una distrazione di massa che arriva, non a caso, proprio quando il consenso verso la nostra classe politica è ai suoi minimi termini canalizzando il malcontento sociale affinché tutto resti come prima.

La verità è che viviamo una fase dello sviluppo capitalistico in cui siamo tutti di troppo. Possiamo uccidere migranti alle frontiere per cercare di essere di meno, possiamo ridurre i nostri bisogni sociali lavorando gratis, mangiando male, abitando peggio e privandoci di affetti e socialità, possiamo cercare di farci sempre più piccoli, sempre più umili, fare un altro buco alla cintura, fare un altro stage sul curriculum. Oppure possiamo organizzarci per prenderci ciò che ci spetta.

Abitiamo in un paese in cui il 10% della popolazione detiene il 50% della ricchezza, decine di miliardi di euro sono investiti in grandi opere inutili quanto dannose, mega-eventi come Expo stornano centinaia di milioni di euro da scuola e sanità per costruire vetrine pubblicitarie per Eataly, McDonald’s e Impresa San Paolo, ci sono centinaia di migliaia di persone senza casa e milioni di case vuote. Il tutto quotidianamente gestito da un ceto politico indistinguibile dalla criminalità organizzata e la cui incessante riproduzione sancisce l’assoluta continuità tra capitalismo cooperativo, industriale, finanziario e mafioso.

Siamo oggi eccedenza umana rispetto a questo sistema di morte e miseria. Diventiamo eccedenza politica che sappia individuare con chiarezza il proprio nemico e pretendere ciò che non è solo possibile ma drammaticamente alla nostra portata: una vita piena e dignitosa per tutte e tutti.