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1 agosto 2015

 

Democrazia in America?

di Francesco Carlesi

 

I super ricchi si stanno comprando il sistema politico americano esattamente come gli oligarchi russi hanno comprato il loro

 

«Dispotismo elettorale». Con questa formula James Madison, figura cardine della storia americana, descriveva la dittatura delle masse incolte prodotta dal voto, che le classi dirigenti avrebbero dovuto limitare per conseguire gli interessi della nazione. Una formula che rivela molto a proposito delle reali spinte che si sono spesso celate dietro il mito della democrazia a stelle e strisce. Già diversi framers, i famosi Padri Fondatori, erano convinti della necessità che il paese fosse guidato da un gruppo di elitisti illuminati, capaci di amministrare senza lasciarsi traviare dalle passioni. Nonostante nobili eccezioni, queste istanze anti-egualitarie si sono trascinate fino ai giorni nostri, subendo addirittura delle paurose accelerazioni negli ultimi tempi. Nessun governo dei migliori però, ma la logica del dollaro a farla da padrone. «L’amministrazione pubblica è tuttora di competenza quasi esclusiva dei ceti più abbienti» ha rilevato Dario Fabbri, che ha descritto le maggiori distorsioni del sistema: «Anzitutto, l’influenza smodata degli oligarchi che conducono primarie personali e che impongono le loro priorità ai congressisti. La presenza delle grandi dinastie che, con i loro professionisti della politica e custodi del consenso, si contendono gli incarichi più prestigiosi (Casa Bianca compresa). L’ingerenza dei lobbisti, ufficiali e nascosti, che fissano l’agenda parlamentare e che, in barba allo spoils system, detengono il potere burocratico, essenziale nella gestione dello Stato. L’assenza pressoché totale di ideologie, che tramuta la competizione elettorale in una questione tra consulenti di marketing ed esperti in comunicazione».

Un passaggio importante è stato sancito dalla sentenza Citizens United vs Federal Election Commission (2010), con la quale la Corte Suprema ha permesso a individui e società private di finanziarie ad libitum i singoli candidati, a patto che non ci sia coordinamento tra loro e i fondi siano elargiti da super pacs, comitati politici. «I super ricchi si stanno comprando il sistema politico americano esattamente come gli oligarchi russi hanno comprato il loro» è stato il graffiante commento dell’editorialista del Washington Post Dana Milbank. Non a caso, grandi magnati della politica hanno rafforzato il loro prestigio, assumendo un ruolo sempre più centrale nelle stanze del potere: i candidati presidenziali, oberati di debiti al termine della corsa elettorale, diventano quasi pupazzi nelle loro mani. Le elezioni del 2016 già hanno scatenato una corsa all’accaparramento dei migliori finanziatori (ricordiamo che i 400 americani più ricchi dispongono di un patrimonio superiore a quello della metà della popolazione, come verificato da Politifact). La Clinton appare in prima fila, visto che può già vantare, oltre all’influente Clinton Foudation del marito, il sostegno di Soros e altri grandi nomi tradizionalmente vicini al Partito Democratico, come Tom Steyer, manager di hedge funds con un patrimonio di 118 miliardi di dollari. Quest’ultimo è noto per l’abitudine di invitare ciclicamente i leader della sinistra nel suo ranch di Pescadero, per influenzarli e testarne l’opinione. Una prassi, quella degli incontri segreti, che ricorda da vicino le mosse del mondo finanziario, altro attore opaco quanto centrale nell’architettura americana. Fu il «New York Times»nel 2010 a denunciare l’esistenza di una cupola di grandi banchieri (Club dei 9) capace di esercitare un potere esclusivo di controllo sul mercato dei derivati, al riparo da ogni trasparenza e concorrenza. Si può leggere testualmente: «Il terzo mercoledì di ogni mese, nove membri di un’elitè di Wall Street si riuniscono a MidTown Manhattan. I dettagli delle loro riunioni sono coperti dal segreto. Rappresentano Goldman Sachs, Morgan Stanley, JP Morgan, Citigroup, Bank of America, Deutsche Bank, Barclays, Ubs, Credit Suisse». Gruppi talmente influenti da poter sferrare addirittura un attacco finanziario all’euro nel 2010. Il democratico Soros, forte delle passate esperienze di speculazioni ai danni della lira e della sterlina, figurò in prima fila, stando alle rivelazioni di un’inchiesta del dipartimento di Giustizia americano. Da parte repubblicana, i grandi dominatori sono i magnati Charles e David Koch, industriali siderurgici e petroliferi, ovviamente organizzatori di eventi esclusivi (denominati the seminars) dove incontrare i massimi esponenti del Grand Old Party. Altro nome di punta è Sheldon Adelson, ottavo uomo più ricco del mondo, amico di Netanyahu e custode dell’allenza con Isreale. Parlare di «territori occupati» a proposito della Palestina è costato la carriera al governatore del New Jersey Chris Christie.

Era il 1942 quando Giselher Wirsing denunciò le oligarchie che dettavano legge nelle democrazie anglosassoni, vergando il libro «Le cento famiglie che comandano l’Impero», riferito in modo particolare alla Gran Bretagna. Nella prefazione all’edizione statunitense firmata da Sylvester Vierreck si legge: «60 sono invece le famiglie che comandano in America: esse fanno e disfano presidenti, senatori, decidono le guerre e i trattati» (primo esempio i Frelinghuysen, che hanno avuto un proprio esponente eletto al Congresso dal 1793 ad oggi). Nella sostanza, le cose non sembrano essere cambiate poi molto da allora: al momento ci sono al Congresso 39 figli di ex parlamentari e tanto il primo cittadino della California, Jerry Brown, quanto quello di New York, Andrew Cuomo, sono eredi di altrettanti governatori (Pat e Mario). Il mondo americano, comunque tra i pionieri del diritto di voto e da sempre capace di produrre e attrarre eccellenze, si trova di fronte alle contraddizioni della sua retorica e della sua giovane storia: lobbisti, esperti di comunicazione, barriere classiste e dinastiche che ne hanno sfibrato il tessuto. Lo stesso popolo che “fece il vago” quando si accorse che il vincitore delle presidenziali G. W. Bush in realtà aveva perso, ha dimostrato di non saper cogliere la continuità aggressiva insita nella politica di Obama: una bandiera pacifista e buonista da tempo smascherata da Wabster G. Tarpley quale l’ultimo “Manchiurian Candidate” del sistema a stelle e strisce.

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