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11 marzo 2015

 

Chavez, la restituzione della patria

di Fabio Marcelli

Giurista internazionale

 

Si stanno svolgendo in questi giorni a Roma, a cura dell’ambasciata della Repubblica bolivariana del Venezuela, una serie di eventi per ricordare uno dei più grandi rivoluzionari del nostro tempo, il Comandante eterno Hugo Chavez Frias, prematuramente scomparso due anni fa circa.

Un evento artistico ha avuto luogo due giorni fa al Teatro Ambra della Garbatella, a Roma, nel corso del quale un quintetto di musicisti guidati da Lionel Ruiz ha messo in scena un concerto sulla base di una serie di pensieri del Comandante, efficacemente tradotti in linguaggio musicale con un effetto davvero suggestivo e direi esaltante. Eccone un piccolo saggio. Alcuni concetti che se ne possono desumere: l’espressione arañero è riferita al fatto che Chavez, da piccolo, vendeva dei dolcetti fatti dalla sua nonna davanti alla scuola per arrotondare l’esiguo reddito familiare e che tali dolcetti avevano, secondo lo stesso Chavez, la forma di piccoli ragni.

Il fatto che ‘il popolo sta piovendo‘  esprime in modo poetico ed efficace la nuova realtà del protagonismo popolare dal basso che costituisce la vera cifra del processo rivoluzionario innescato dall’elezione di Hugo Chavez a presidente nel 1998 e che continua oggi con Maduro. Il contenuto e risultato più notevole di questo processo è stato la restituzione al popolo della ‘patria’, concetto fino ad allora privo di senso in Venezuela come in molti altri Stati del mondo. Questo concetto ha assunto invece un significato profondo per il popolo fino ad allora emarginato ed escluso da ogni partecipazione che ha trovato la soddisfazione dei propri diritti fondamentali in termini di salute, educazione, casa.

Un processo certamente difficile e non privo di contraddizioni, ma che una volta iniziato va avanti in modo inesorabile.

Ciò spiega la disperazione dell’oligarchia venezolana, abituata a comandare e a enormi privilegi, che oggi, con la protervia e la caparbietà di chi ha subito una rivoluzione e insiste a non rassegnarvisi, tenta ogni carta pur di tornare al potere. Un’oligarchia per definizione priva di ‘patria’ e che della ‘patria’ non sa che farsene; tutt’al più ha bisogno di un popolo e di un territorio da sfruttare.

Ciò spiega anche perché quest’oligarchia priva di ‘patria’ riponga le sue speranze nei padroni di sempre, auspicando l’intervento dall’esterno degli Stati Uniti. La gravissima decisione, comunicata da Obama pochi giorni fa, di ritenere l’attuale Venezuela addirittura una minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti, mostra con chiarezza alcune cose. Primo, che lo stesso Obama, nonostante abbia dato al potere imperiale un volto più umano e gradevole di quello del ‘demente’ Bush, resta purtroppo prigioniero dei meccanismi di potere di sempre. Secondo, che questi meccanismi di potere continuano ad attribuire enorme importanza al controllo dell’America Latina e hanno per ciò ritenuto di individuare proprio nel Venezuela, dopo la morte di Chavez, l’anello debole da rompere.

Bisogna però dire ad Obama e ai suoi manovratori che sbagliano almeno tre volte. Sbagliano, perché il processo di integrazione latinoamericana è oggi molto forte e non consentirà il ritorno alle logiche degli interventi militari e dei colpi di Stato. Sbagliano, perché il popolo venezolano, dopo aver assaggiato il frutto proibito della democrazia reale e dei diritti sociali, non tornerà tanto facilmente nel canile in cui vorrebbero costringerlo i membri dell’oligarchia. Sbagliano, perché questi ultimi, nonostante controllino tuttora (speriamo ancora per poco) la gran parte dell’economia nazionale e dei mezzi di comunicazione, rappresentano una minoranza ogni giorno più piccola del Paese in questione.

Sbagliano, ma evidentemente non se ne rendono conto.

Occorre sperare che la consapevolezza del tremendo e triplice errore avvenga senza costi ulteriori in termini di vite umane. A nessuno, neanche alle maggiori potenze mondiali, è consentito far tornare indietro la ruota della storia. Così come non è consentito violare impunemente le più elementari norme del diritto internazionale.  Questo bisognerebbe cominciare a studiarlo anche nelle più o meno brillanti università nelle quali si forma l’élite statunitense.

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