Fonte: la Jornada 

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4 agosto 2015

 

La nuova grande trasformazione

di Raúl Zibechi

Traduzione di Daniela Cavallo

 

Siamo alla fine di un periodo che segna una nuova grande trasformazione sistemica. Comprende almeno tre importanti cambiamenti: la fine dello stato sociale, quella della sovranità nazionale e quella delle democrazie

 

Le forme recenti dell’accumulazione che il capitalismo impone per tutelare la sua esistenza e potersi riconfigurare secondo le esigenze del momento segnano una profonda trasformazione. Che evidenzia almeno tre grandi cambiamenti: la fine dello stato sociale, quella della sovranità nazionale e quella delle democrazie. La democrazia, che non è l’opposto della dittatura e dovrebbe esprimere qualcosa di ben più ampio dello svolgimento di libere elezioni, non funziona. Peggio, funziona solo se smantella i poteri de los de abajo: i lavoratori, le donne povere, gli indigeni, etc. Senza quei poteri, i cosiddetti diritti democratici valgono niente, sono carta straccia. Raúl Zibechi, che sarà in Italia a fine agosto*, sostiene che non possiamo continuare a credere di poter cambiare il sistema creato da los de arriba (quelli che stanno in alto) con strategie centrate su strumenti e forme del conflitto che sono stati modellati per garantire l’esercizio del loro dominio.

Uno dei pochi vantaggi delle grandi crisi è che ci aiutano a sollevare il velo con il quale il sistema nasconde e dissimula le sue modalità di oppressione. In questo senso la crisi che vive la Grecia, può essere una fonte di apprendimento. Per questo propongo di rifarci al lungo cammino percorso da Karl Polanyi nello scrivere La grande trasformazione. Per comprendere l’ascesa del nazismo e del fascismo, Polanyi è risalito alle origini del liberalismo economico, situate nell’Inghilterra di David Ricardo.

Il capitalismo del libero mercato, i mercati non regolamentati, ha disgregato le relazioni sociali e distrutto le comunità, sottoponendo gli individui, strappati dai propri villaggi, alla fame e all’umiliazione. Polanyi sostiene che la recinzione dei campi – l’ inizio di questo processo – è stata una rivoluzione dei ricchi contro i poveri. Dopo la Pace dei Cent’anni si è verificata la disintegrazione dell’economia mondiale e “lo Stato liberale è stato rimpiazzato in molti paesi da dittature totalitarie” (La Piqueta, 1997, p. 62).

Come segnala David Harvey in The new imperialism [1], la trasformazione che stiamo vivendo negli ultimi decenni è stata analizzata come l’egemonia dell’accumulazione per espropriazione (o spoliazione). Seguendo le orme di Immanuel Wallerstein e Giovanni Arrighi, le radici di questo processo vanno ricercate nelle lotte operaie degli anni ’60 (e degli anni ’70 in America Latina), che hanno scompaginato la disciplina industriale neutralizzando il fordismo-taylorismo, uno dei fondamenti dello stato sociale. La classe dominante ha deciso di passare dall’egemonia dell’accumulazione per riproduzione allargata alla dominazione attraverso l’accumulazione per saccheggio.

Il concetto di accumulazione per espropriazione, tuttavia, non si ferma al tipo di Stato adatto a questa fase. Al fine di imporre il furto/espropriazione, il regime politico non può essere lo stesso di quello che ha scommesso sull’integrazione dei lavoratori come cittadini. A mio modo di vedere, è questo il nucleo degli insegnamenti della crisi greca (e delle crisi nei vari processi latinoamericani).

Ci troviamo davanti alla fine di un periodo. Una nuova grande trasformazione sistemica, che include almeno tre importanti cambiamenti, che dovrebbero avere una loro corrispondenza nell’adeguamento delle tattiche e delle strategie dei movimenti antisistemici.

Il primo è già stato menzionato: la fine dello stato sociale. Perfino in America Latina nel secondo dopoguerra abbiamo assistito a un relativo sviluppo industriale, all’assegnazione di diritti alle classi lavoratrici e al loro progressivo e incompleto inserimento come cittadini. La deindustrializzazione e la finanziarizzazione delle economie, sostenute dal Consenso di Washington, hanno sepolto questo sviluppismo.

La seconda trasformazione è la fine della sovranità nazionale. Le decisioni importanti, tanto quelle economiche che quelle politiche, sono passate in mano ad ambiti fuori dal controllo degli stati nazionali. La recente “trattativa” tra il governo greco e l’eurogruppo, mostra chiaramente la fine della sovranità. È certo che molti governanti, di destra e di sinistra, naufragano tra la mancanza di scrupoli e la mancanza di un progetto. Tuttavia è altrettanto certo che, ammesso che esista, il margine di azione dello Stato-nazione è minimo.

Il terzo è la fine delle democrazie, strettamente legato alla fine della sovranità nazionale. Di questo non si vuole parlare. Forse perché sono molti coloro che vivono delle briciole degli incarichi pubblici. Tuttavia questo è uno dei nuclei dei nostri problemi. Quando l’un per cento delle popolazione tiene sequestrata la volontà popolare e il 62 per cento è sottomesso all’uno per cento; e quando questo accade più volte in diversi paesi, è perché qualcosa non funziona. E quello che non funziona si chiama democrazia.

Credere nella democrazia, che non è sinonimo di andare alle elezioni, è un grave errore strategico. Perché credere nella democrazia vuol dire smantellare i nostri poteri di classe (cioè quelli dei lavoratori, delle donne povere, degli indios, dei neri e dei meticci, dei settori popolari e dei contadini senza terra, degli abitanti delle periferie, insomma di tutti los abajos). Senza quei poteri, i cosiddetti “diritti democratici” sono carta straccia.

La democrazia funziona smantellando i nostri poteri. E qui è necessario introdurre alcune considerazioni.

Uno. La democrazia non è l’opposto della dittatura. Viviamo la dittatura del capitale finanziario, di piccoli gruppi che nessuno ha eletto (come la troika) e che impongono politiche economiche contro le maggioranze, perché, tra le altre cose, quelli che vanno al governo sono comprati o minacciati di morte, come ci ricorda bene Paul Craig Roberts: “È molto probabile che i greci sappiano che non possono dichiarare la sospensione dei pagamenti e andarsene, perché se lo fanno saranno assassinati. Di certo gliel’hanno fatto capire molto chiaramente”. [2] Craig Roberts sa quello che dice, perché viene da[gli ambienti] là in alto.

Due. Da quando la borghesia ha imparato a manipolare il desiderio e la volontà della gente per mezzo del marketing, imponendo il consumo di merci assurde e inutili, la democrazia è soggetta alle tecniche del marketing. La volontà popolare non giunge mai a esprimersi nelle istituzioni statali, nei termini e nei codici che le classi popolari usano nei loro spazi-tempi, ma [vi giunge] mediata e vagliata fino a essere neutralizzata.

Tre. I poteri di classe sono stati codificati in diritti. Non è la stessa cosa riunirsi, pubblicare opuscoli o creare reciprocità basandosi sulle proprie forze ed evitando la repressione, che lasciare che siano gli stati a regolare e disciplinare questi modi di fare per mezzo di sussidi. La repressione è spesso il primo passo per conseguire la “legalizzazione”.

Adesso il problema è nostro. Possiamo continuare, come abbiamo fatto finora, puntando tutto sulle elezioni, i cortei e le manifestazioni, sugli scioperi regolamentati, e così via. Nulla di tutto questo, sia chiaro, va scartato per una qualche questione di principio. Il problema sta nel costruire una strategia centrata su questi strumenti, che sono regolati da “los de arriba” [da coloro che stanno in alto, ndt]. Audre Lorde, femminista nera, ha scritto: “Gli strumenti del padrone non smantellano mai la casa del padrone” .

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