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21 gennaio 2015

Perdere l’anima
di Paolo Mottana

Una breve e per forza di cose schematica riflessione sul successo.

È di grande evidenza che oggi (come peraltro anche prima dell’avvento del grande circo multimediale ma in forme diverse), il successo, la visibilità e il riconoscimento pubblico siano tra le mete più agognate della giostra sociale. Non solo per corrispondere, anche se è fondamentale, al ben noto “desiderio di essere desiderati” che tale risultato implica, ma anche per motivi di ordine materiale e di natura più letterale.

Vano sarebbe soffermarsi sull’ovvia ricca messe di doni che il successo porta con sé. Qualcosa di così remunerativo che consente di comprendere bene perché infatti la maggior parte, se non la totalità di coloro che lo conseguono, non riescono più a separarsene, ad ogni costo, avendo sviluppato rapidamente una vera e propria dipendenza. I casi sono sotto gli occhi di tutti. Non esiste praticamente pentimento sulla via del successo.

Al successo si può giungere per molte vie, alcune casuali e fortuite, che spesso generano dei successi temporanei (come i reality, i talk ecc.), e che spesso peraltro conducono a cadute tragiche seguite da depressioni, tossicodipendenze ecc.

Altre più graduali e sicure, specie nel caso del mondo dello spettacolo (attori, cantanti, conduttori ecc.), per assicurarsi le quali spesso a valere è un effettivo talento, o meglio il gradimento diffuso del talento, dunque la “popolarità”. Tali percorsi, talora anche molto lunghi e accidentati, conducono a un successo meno transitorio, che solitamente decade con l’età ma non necessariamente. Anche qui tuttavia, non si viene meno ad un certo continuo restyling, un ‘opera di accurato “adeguamento” del proprio profilo ai gusti del pubblico e l’interdetto a ogni eccesso di “differenza”.

Vi è poi il caso dei giornalisti, oggi campioni della popolarità di un tempo totalmente arroccato sull’istantaneità e sul breve termine, che tuttavia debbono dimostrare una certa attitudine di assertività e presenza, debbono possedere un eloquio originale, dire cose nuove senza però eccedere in trasgressione. I casi sono numerosi.

Più specifico e più singolare, oltre che inquietante, è il caso degli intellettuali. Da noi un grande apripista, in questo settore, fu Francesco Alberoni già molti anni fa. Di lui il meno che si possa dire è che, del suo potenziale talento di intellettuale radicale fece ben presto un falò, preferendo di gran lunga diventare un vero e proprio caposcuola nell’arte dell’annacquamento, della divulgazione e della svendita delle idee a padroni sempre più remunerativi e capaci di fornire visibilità e fama. In questo caso la perdita dell’anima, posto che mai essa abbia avuto sede in lui, è acclarata.

Su questa via si sono poi accodati in molti, con gradi diversi di prostituzione intellettuale ma sempre con l’obiettivo di emergere dall’oscurità accademica o professionale, di cavalcare una visibilità remunerativa che consentisse di diventare allo stesso tempo influenzatori e star. E di riempire possibilmente rapidamente il proprio portafogli e il plotone dei fan. All’inizio i lidi più agognati furono soprattutto i giornali. In seguito soprattutto le televisioni, vere e proprie catalizzatrici e moltiplicatrici del successo.

Influenzatore si diventa naturalmente a patto di accettare di essere potentemente rimodellati dai mezzi della diffusione. È un assioma banale ma inoppugnabile. A questo scopo ci si può affidare a consulenti specializzati che, a caro prezzo, “popolarizzano” a patto di cedere ad ogni richiesta di rimaneggiamento che riguardi il linguaggio, i toni, le idee (che devono essere adattate al grande pubblico), di sicuro l’immagine (rielaborata in funzione della vendita). Naturalmente ogni trionfo ha i suoi prezzi, e nel caso di quasi tutti costoro, lo scadimento qualitativo della loro ricerca, il tono elementarizzato delle loro argomentazioni e soprattutto la levigazione progressiva di ogni accento di eccessiva “diversità” o estremismo sono indispensabili.

Beninteso, si può essere prescelti dal mercato editoriale e mediale anche e proprio in quanto “outsider” autentici (almeno fino al momento dell’assunzione nell’eden mediale), e si pensi a fenomeni come quelli di Busi o di Mauro Corona o altri, ma a patto poi di reggere costantemente la maschera e di non discostarsene troppo, perché la regola del mondo dello spettacolo rimane quella di un buon grado di prevedibilità.

Il successo arride dunque ai “fenomeni”, ai “mostri” da una parte e agli adattabili dall’altra. Prezzo unico del viaggio, non procrastinabile: perdere l’anima e la faccia. Si badi, l’anima, come intimità propria che viene inevitabilmente cancellata (questo è il prezzo che deve pagare ogni moderno Faust), e la faccia, sostituita poi definitivamente da una maschera, che deve rimanere sempre identica, talvolta persino nel costume (la camicia aperta, quella bianca con cravatta, la terribile condanna alla stessa pettinatura o alla stessa barba incolta). Di volto, come manifestazione inconfondibile della propria unicità, mai più neanche a parlarne.

Tutto questo è sicuramente vecchio e insopportabile per un’epoca che ha già dimenticato i Benjamin, i Warhol e i MacLuhan (e il mito). Comunque è ciò che si mostra intorno a noi e che ci riguarda, tutti.

 


* Docente di Filosofia dell’educazione presso l’Università di Milano-Bicocca, ha insegnato Filosofia immaginale e didattica artistica all’Accademia di Brera e si occupa dei rapporti tra immaginario, filosofia e educazione.

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