Memo

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 25/6/2015

 

Famiglia perseguitata e condannata in quanto Palestinese: la democrazia e i diritti secondo gli USrEl

di Victoria Brittain

Traduzione di Stefano Di Felice

 

“Come la nostra guerra al terrore continua a schiacciare le famiglie e a distruggere le organizzazioni benefiche”.

 

Nove mesi fa, durante l’assalto israeliano su Gaza di 51 giorni che uccise 2200 persone, l’ospedale riabilitativo di El-Wafa venne bombardato. I suoi pazienti indifesi, per lo più paralizzati o privi di coscienza, vennero salvati prima dell’abbattimento. Sotto il fuoco, il personale dell’ospedale trasferì i pazienti avvolti nelle lenzuola in una clinica ostetrica a Gaza City. Lo stesso gruppo di El-Wafa ha ora costruito un altro ospedale-complesso per le cure croniche in un edificio che gli è stato donato. Finora esso non possiede la capienza e i macchinari persi a El-Wafa, ma si lavora affinché altri centri simili possano occuparsi dei disabili e dei feriti nelle città devastate di Khan Yunis e Rafah.

Il direttore esecutivo di El-Wafa, Basman Elashi, ispira il personale composto di 200 persone. Egli è un uomo di notevoli capacità organizzative e ottimismo, che lavora nonostante il persistente blocco su Gaza. La sua storia di coraggio riflette la storia di una famiglia benestante americano-palestinese, frantumata e dispersa dalla «guerra al terrore» degli Stati Uniti. Tre anni fa Basman Elashi e suo fratello Bayan giunsero al confine tra l’Egitto e Gaza senza documenti, e in custodia dell’Fbi. Furono improvvisamente deportati dagli Stati Uniti. I funzionari del confine egiziano protestarono per la mancanza di documenti, ma grazie all’appoggio dei funzionari Usa vennero fatti passare, con la minaccia: «Vi facciamo entrare a Gaza ma non vi faremo uscire mai». Fu un bentornato brutale alla terra lasciata da bambini.

Una volta a Gaza, Basman racconta di aver ricevuto «un abbraccio incondizionato da persone buone… Ma non avrei mai immaginato di far ritorno a Gaza… Non pensavamo che un giorno saremmo stati dei criminali. Eravamo fedeli alle leggi degli Stati Uniti da 40 anni… sono un figlio degli Usa».

Gli Elashi hanno vissuto il sogno americano per decenni prima di diventare bersaglio della guerra al terrore. Da quasi 40 anni i 5 fratelli Elashi, le loro mogli e i loro 23 figli hanno goduto i frutti del duro lavoro e del successo materiale, dapprima in California, poi in Texas. Fu il culmine del viaggio ambizioso del loro padre, che portò via i bambini da Gaza e li iscrisse a scuola in Egitto. I palestinesi non avevano possibilità di frequentare l’università egiziana, così, dapprima raggiunsero la Gran Bretagna, e poi gli Stati Uniti. Dopo il college, e dopo il matrimonio con giovani palestinesi dalla Giordania e dall’Arabia Saudita, i fratelli iniziarono i propri affari a Los Angeles.

Basman mi ha spiegato su Skype che fu il percorso compiuto a fargli decidere di iniziare la beneficenza. «Dapprima pensavamo che la questione palestinese forse scomparsa, una questione chiusa per i media. Poi venne la violenta repressione della prima intifada – ragazzini e studenti di Gaza che lanciavano pietre ai militari. Dalla nostra comoda vita negli Stati Uniti sentimmo che era nostra responsabilità aiutare le persone bisognose a Gaza».

Così lasciarono la California dopo le sommosse per il caso Rodney King del 1992: «Il nostro negozio fu tra i molti dati alle fiamme, allora avevamo 19 bambini, le scuole pubbliche della città erano scadenti, così lasciammo Los Angeles e decidemmo di stabilirci a Dallas, in Texas, anche perché lì c’era una buona scuola islamica».

I fratelli comprarono casa nello stesso quartiere vicino al loro lavoro comune. Insieme fondarono una compagnia di informatica di successo, Infocom, e registrarono la loro organizzazione benefica sotto il nome di Holy Land Foundation. Hlf divenne la più grossa organizzazione benefica degli Stati Uniti, occupandosi non solo di palestinesi, ma anche di altre persone in difficoltà, come le vittime dell’uragano Katrina. Erano una grande famiglia dinamica, conosciuta nella comunità, grandi lavoratori e datori di lavoro, appoggiavano tutte le cause sui diritti umani e i loro bambini ottenevano buoni risultati nello studio. La figlia di Basman e Wafa, Eman, che ha la propria famiglia negli Usa, ricorda la sua infanzia come un periodo «straordinario, bello, circondata dalla famiglia, con tutti i cugini con cui giocare e tanto amore e sostegno».

Una settimana prima dell’11 settembre 2001 un gruppo corazzato di agenti Usa assaltò il quartier generale di Infocom, la ditta di famiglia nella quale lavoravano tutti e cinque i fratelli. Gli agenti stavano cercando dei collegamenti agli attacchi terroristici su obiettivi Usa degli anni Novanta, il bombardamento devastante del 1998 all’ambasciata dell’Africa orientale e l’attacco suicida avvenuto 18 mesi più tardi alla Uss Cole nel porto di Aden. «Non avevamo idea di cosa stesse succedendo», disse Basman. «Loro credevano di aver trovato un centro del terrorismo mondiale, e che avremmo opposto resistenza… Erano pronti alla guerra… Tutto ciò che trovarono erano carte e computer».

Infocom venne chiusa, e i suoi beni sequestrati. Nonostante ciò, in pochi giorni i fratelli convinsero un giudice a rilasciare una dichiarazione secondo la quale, in base ai materiali sequestrati dall’ufficio, non c’era motivo per cui la compagnia non potesse continuare a essere operativa. Cambiarono il nome in Synaptix, aprirono un nuovo conto bancario e gli affari ripresero. Ma 3 mesi più tardi, nel dicembre 2001, 3 giorni dopo una visita di Ariel Sharon al presidente Bush, il Dipartimento del tesoro Usa dichiarò essere la Holy Land Foundation un «luogo preposto al terrorismo globale». Il giorno successivo l’Fbi fece chiudere l’associazione benefica.

Da quel momento in poi la vita dei fratelli venne condizionata da 4 processi: 2 per Infocom e 2 per la Holy Land Foundation. Il sogno americano, per la famiglia Elashi, svanì. I processi terminarono con la condanna al carcere di tutti e 5 i fratelli per la questione Infocom. Tre di loro vennero poi deportati, e Ghassan, che era il presidente di Hlf, venne condannato a 65 anni di carcere.

Alla base di tutto questo c’era la fissazione del governo Usa post 11 settembre a scorgere nemici musulmani ovunque, dall’Iraq a Dallas. Le retate finirono presto col riempire la prigione di Guantanamo Bay di uomini di tutte le parti del mondo, anche in mancanza di prove connesse a fatti di terrorismo. La ricerca di membri di Al-Qa’ida e dei loro finanziatori era un’ossessione. Il desiderio covato a lungo da Usa e Israele di distruggere Hamas, il movimento di resistenza di Gaza indicato come organizzazione terroristica nel gennaio 1995, ebbe un nuovo impulso in questo clima politico. Le organizzazioni benefiche musulmane erano un facile bersaglio. I benestanti fratelli Elashi, una cui cugina sposò un leader di spicco di Hamas, si ritrovarono nel mirino del governo degli Stati Uniti.

Nel 2002 l’amministrazione Bush incriminò i 5 fratelli di 33 capi d’accusa per «finanziamenti terroristici», e per aver venduto tecnologia informatica alla Siria e alla Libia tra il 1997 e il 2000. I 2 Paesi vennero quindi inseriti dagli Usa nell’elenco degli sponsor del terrorismo.

«Sapevamo che la legge non ci permetteva di lavorare con la Libia, e quando un cliente ci richiese un ordine da Malta inviammo una persona a fare dei controlli. Fummo ingannati. Non eravamo al corrente dei collegamenti con la Libia fino al rinvio a giudizio, spiegò Basman. Nel caso siriano Infocom ebbe l’approvazione del governo degli Stati Uniti per l’invio di attrezzature a diversi consolati di Damasco. «L’attrezzatura relativa al rinvio a giudizio valeva solamente 3000 dollari, e quando chiamai il dipartimento dell’esportazione per chiedere se fosse stata necessario un permesso, mi risposero di no, in quanto molto piccolo… Non registrai la telefonata».

I 5 fratelli Elashi e Infocom vennero giudicati colpevoli nel primo processo sull’esportazione, del 2004. Nel secondo processo del 2005, Basman, Bayan e Ghassan vennero nuovamente giudicati colpevoli, di cospirazione, con un terrorista di Hamas, il funzionario Mousa Abu Marzouk. Infocom aveva inviato un assegno a Marzouk, il marito della cugina Nadia, che era anch’ella un’investitrice in Infocom. I Marzouk lasciarono gli Usa prima dell’accusa di terrorismo inviata a Abu Marzouk nell’agosto 1995, 8 mesi prima che Hamas ricevesse la stessa accusa. L’assegno serviva a coprire le spese immobiliari di Nadia Marzouk in Giordania (lei non era considerata una terrorista).

Basman venne condannato a 6 anni e mezzo e Bayan a 7 anni di detenzione: entrambi sono stati in custodia federale dal dicembre 2002 con l’accusa di «violazioni dell’immigrazione». Altri due fratelli, Ihsan e Hazim, sono stati condannati rispettivamente a 6 e a 5 anni e mezzo. A Hazim dopo la sentenza è stata ordinata la deportazione, e ora vive in Libano. Ghassan ha avuto 7 anni, ma poi, in quanto presidente dell’Hlf, ha affrontato altri due processi. Basman, non più ufficialmente coinvolto nella fondazione, non è stato accusato di nulla in quel caso.

Il processo Hlf divenne il simbolo della guerra del governo Usa alle organizzazioni di beneficenza musulmane. L’argomentazione del governo era che le donazioni dell’Hlf a Gaza erano controllate da Hamas. Il caso venne considerato in base ai concetti di «assistenza» e di «appoggio materiale al terrorismo» del Patriot Act. Il governo utilizzò prove segrete, durante il processo, e vi fece partecipare testimoni anonimi venuti da Israele.

Al procedimento due dei testimoni chiave parteciparono sotto pseudonimo, «Avi» e «il maggiore Lior», il primo in quanto funzionario dell’intelligence israeliana, e il secondo come membro delle Forze di difesa israeliane. Poiché alla difesa non venne dato sapere chi loro fossero realmente, non poterono essere contro interrogati per accertarne competenza e credibilità. Come Avi disse in tribunale, «non potete fare verifiche su di me».

Nel 2007 il primo processo Hlf venne annullato. Ma il secondo portò alle condanne che il governo cercava. Fu quasi inevitabile dopo «la ripetuta, gratuita invocazione della violenza» dell’accusa, come si espresse un avvocato della difesa, e considerata la testimonianza rilasciata dal membro della sicurezza nazionale Steven Simon, che collegò il terrorismo di Hamas con l’11 settembre e con il rischio di terrorismo in futuro. Nessuno degli imputati venne accusato di violenza o di appoggio diretto al terrorismo; essi vennero condannati per aver istituito a Gaza dei comitati per la zakat (elemosina), alcuni dei quali, secondo quanto dichiarato dal testimone anonimo, controllati da Hamas.

Il tribunale venne informato dalla difesa del fatto che Usaid, l’Onu, la Croce Rossa e altre organizzazione non governative finanziavano i medesimi comitati per la zakat, così come ad essi affluivano fondi europei. I comitati erano l’unico modo per ottenere finanziamenti di beneficenza per la popolazione di Gaza.

Nel 2008 i 5 direttori dell’Hlf, compreso un membro della famiglia Elashi, Ghassan, vennero condannati con l’accusa di aver appoggiato materialmente il terrorismo. Ghassan Elashi, il presidente, e il capo esecutivo dell’Hlf, Shukri Abu Baker, vennero condannati a 65 anni. Nancy Hollander, legale di Abu Baker, disse dopo la sentenza: «Ne rimasi sconvolta, l’idea che si possa ricevere una condanna a 65 anni per aver fatto beneficenza è una vergogna, e ritengo che questo caso passerà alla storia, come è successo con altri casi… Fondamentalmente queste persone sono state condannate per essere dei palestinesi».

Linda Moreno, altro avvocato della difesa per Hlf, mi ha detto alcune settimane fa: «Molti avvocati hanno difeso un caso che non avrebbero mai voluto perdere, che avrebbe loro spezzato il cuore. Questo è stato il mio caso. Il governo di Israele ha perseguito l’organizzazione di beneficenza musulmana più di successo negli Stati Uniti. Il successo di Hlf derivò in parte dalla pubblicazione su manifesti e altri media di immagini della devastazione che l’occupazione causa in Palestina, soprattutto sui bambini. Le immagini di bambini affamati che vivono nelle macerie di quella che era stata la loro casa, distrutta dalle Forze di difesa israeliane, contrapposte alle ambulanze, alle medicine, al cibo forniti dall’Hlf, hanno danneggiato l’immagine di Israele. Il mio cliente ha nutrito il bambino sbagliato. Per questo morirà in galera».

I processi e la serie di appelli hanno avuto risonanza internazionale. Nella Reviews of Books di Londra, l’avvocato britannico Francis Fitzgibbon chiude un articolo sul processo Hlf con le seguenti parole: «Alla fine del 2001 l’amministrazione Bush voleva far credere al mondo di essere in balia degli avvenimenti. Secondo David Aufhauser, avvocato anziano del Dipartimento del tesoro, c’era una grande pressione politica sul Dipartimento per trovare i nomi di chi finanziava il terrorismo di al-Qa’ida. «Stilammo un elenco dei soliti sospetti e proponemmo di congelare alcuni dei loro beni». L’Hlf, egli scrisse, era un’organizzazione cooperativa che aveva inviato grosse quantità di denaro ai palestinesi, e dev’essere sembrato un obiettivo facilmente raggiungibile.

Nel 2009 l’Unione per le libertà civili americana (Aclu) informò sui risultati del processo Hlf, e concluse che esso causò «una paura intensa tra i benefattori musulmani».

Nel periodo del rapporto Aclu, Ghassan Elashi, l’ex presidente della più grande organizzazione di beneficenza musulmana degli Stati Uniti, stava scontando la sua pena di 65 anni in una delle prigioni più rigide degli Usa. Egli ha passato quasi 8 anni nelle carceri degli Usa o in detenzione d’immigrazione, 4 dei quali in isolamento. «Le prime 2 settimane in prigione sono state il periodo più difficile della mia vita. Poi ho cominciato a rilassarmi leggendo il Corano, e ho passato tutto il tempo a leggere».

«Ho passato 8 anni tra criminali, stupratori ecc. Ho insegnato loro l’inglese, la matematica, la storia, per 70 dollari al mese. Ho fatto laureare molte persone. Perfino un guardiano mi chiese: «Perché sei in prigione?» Forse perché sono palestinese, forse perché sono di Gaza, o perché sono un attivista.

Nel 2009 Basman venne improvvisamente liberato e ritornò in Texas, da sua madre e da suo figlio. «Ricevetti una telefonata in prigione. Mi dissero, vai, non vogliamo più vederti qui. Ero attonito, sotto shock». Il suo primo desiderio da uomo libero furono le uova strapazzate di sua madre. Prima del suo rilascio sua moglie e il suo figlio più piccolo furono costretti a lasciare gli Usa per «partenza volontaria», e si trovavano ora in Arabia Saudita. Basman passò i tre anni successivi con sua madre. «Mia madre è la mia forza, e in quegli anni io feci tutto con lei e per lei». Ma egli si trovava in un limbo, e sapeva di non avere il controllo sul suo futuro e sul futuro della sua famiglia. «Parlai con molti avvocati dell’immigrazione, che mi dissero che non avrei mai avuto il diritto di restare negli Usa per il mio coinvolgimento con Hlf». Non avrebbe mai immaginato, allora, che la sua destinazione sarebbe stata Gaza.

A Bayan, il fratello di Basman, dopo i 7 anni di detenzione per il processi Infocom, venne ordinato di lasciare gli Usa, ma rimase in prigione mentre il governo sosteneva di cercare un Paese in cui poterlo mandare. Dopo una petizione sull’habeas corpus egli venne rilasciato nel 2010 a condizione di monitoraggio a tempo indeterminato. Gli venne chiesto di apparire presso la polizia di Dallas settimanalmente, cosa che fece per due anni. Bayan, Basman e le loro famiglie fecero il possibile per ottenere i documenti necessari per lasciare gli Stati Uniti dopo la sentenza, cercando disperatamente un Paese che li avrebbe accolti. All’inizio Bayan pensò di recarsi in Finlandia, ma non venne accettato. Prima di essere spostato a Gaza chiese di essere ammesso in 40 Paesi, ma tutti lo rifiutarono.

I fratelli avevano cercato da anni di ottenere la cittadinanza negli Usa. Negli anni precedenti l’arresto Basman stava per ottenerla in tre diverse occasioni, ma ogni volta sorsero degli ostacoli. «E’ stato tutto casuale; la prima volta il visto mi attendeva in Arabia Saudita, ma poi avvenne l’invasione del Kuwait e i sauditi, in quanto palestinese, non mi avrebbero lasciato entrare. Avrei potuto avere il visto tramite mia madre, ma tre mesi prima del colloquio venni arrestato».

Egli aveva sempre mantenuto il proprio status tramite il lavoro, ma il suo visto era legato alla conservazione del lavoro. «Con l’arresto siamo diventati illegali». Basman si sente ancora unito all’America: «Parte del mio corpo è ancora americano, sono grato per l’istruzione ricevuta, amo ancora l’America, gli americani sono persone per bene, solo in pochi hanno deciso di compiere brutte cose».

Le parole di un funzionario dell’ufficio immigrazione a Dallas ancora risuonano nella mente di Basman: «Voglio dividere tutte queste mogli e separare la famiglia Elashi». Tutte le mogli sentirono e rimasero sbalordite. Lo stesso funzionario disse alla moglie di Basman, Wafa, e a sua cognata Fayrouz che sarebbero potute rimanere negli Stati Uniti se avessero divorziato. Entrambe rifiutarono (Fayrouz e il marito Hazim ora vivono in Libano). Il desiderio del funzionario si è avverato; la famiglia è ora sparsa in diversi continenti, e si pensa che alcuni di loro non potranno mai rivedersi.

Mentre Basman era in prigione, sua moglie Wafa, una palestinese di famiglia gazawi cresciuta in Arabia Saudita, ora apolide, venne anche lei incarcerata dall’immigrazione Usa. La figlia di Basman, Eman, e suo marito, guidavano 5 ore ogni volta per farle visita nel fine settimana. Nell’agosto 2007, Wafa accettò la partenza volontaria per Dubai. Passò lì 3 mesi prima di spostarsi per un breve periodo in Siria. Infine uno dei fratelli, un saudita nazionalizzato, ottenne il permesso dal re di portare Wafa e la sua figlia più piccola in Arabia Saudita, dove lei era vissuta da bambina.

Lontano, a Gaza, Basman dice quanto ama sua moglie e quanto il dolore e la rabbia che lei sente siano difficili da sopportare. «Lei non mi può raggiungere, e io non posso andare da lei. Lei è sconvolta e io non posso aiutarla, se non inviandole un po’ di denaro che riesco a guadagnare qui a Gaza. I nostri altri 2 figli sono a Chicago e in Texas… Hanno spezzato una famiglia».

Eman è sopraffatta dagli effetti della separazione. «E’ stata molto dura per mia madre e per mia sorella minore; lei non ha mai visto i genitori insieme, e non ha mai vissuto la vita sicura di una grande famiglia che c’è stata tolta».

Eman svolge la sua professione a Chicago, con i suoi 2 figli piccoli e suo marito giordano. E’ lontana dall’infanzia idilliaca passata in Texas, circondata da 22 cugini e 8 zii e zie, ogni giorno fino ai 17 anni. Quando il disastro arrivò, lei diventò il più grande aiuto di suo padre. «Lei ha vissuto con me i miei anni di prigionia, in contatto quotidianamente, inviandomi denaro per cose necessarie, come le telefonate. Potevo sempre contare su di lei… è una brava persona», dice Basman.

Ci fu un momento di speranza di riunire la famiglia quando il fratello di Eman compì 21 anni e richiese il ricongiungimento con Wafa negli Stati Uniti. Ma al colloquio di Wafa al consolato Usa in Arabia Saudita le chiesero se era ancora sposata con Basman, e quando lei rispose di sì le dissero che ci sarebbero state delle difficoltà. «Non poteva mentire – la questione non erano le difficoltà materiali, le difficoltà erano vivere una vita familiare come la nostra. Le rifiutarono il visto».

Ora Eman visita due volte l’anno sua madre e sua sorella in Giordania, dove vivono dalla suocera. Ma i 10 giorni di aspettativa all’anno dal lavoro sono un piacere effimero. «La cosa più difficile da accettare è la mancata condivisione della vita quotidiana».

La moglie di Bayan, Lima, è in Giordania, dove si sta curando un tumore, che non potrebbe curarsi se vivesse con il marito a Gaza. Suo figlio è negli Stati Uniti ma le sue 4 figlie hanno scelto di vivere con lei in Giordania, 2 di loro con i rispettivi mariti.

Oggi Basman e Bayan vivono insieme a Gaza. «Siamo una famiglia elettronica», dice Basman riferendosi ai contatti scambiati su Skype. «Ma 13 anni stanno facendosi sentire nei nostri legami». I messaggi della sua figlia più giovane gli fanno male al cuore: «Lei dice che i suoi fratelli sono fortunati per aver provato cosa vuol dire un abbraccio paterno».

Da quando Israele ha distrutto El-Wafa, Basman ha lavorato senza sosta alla ricostruzione e all’equipaggiamento del nuovo ospedale. «Sono contento di lavorare 24 ore al giorno. Se mi fermassi a pensare alla mia famiglia negli Usa – due figli grandi e mia madre, e a mia sorella in Arabia Saudita – sarei sconvolto».

Egli vive immerso nella società gazawi e ne apprezza profondamente le qualità umane. «Qui ciò che conta è la parola della gente e la fiducia, tutti sono esseri umani, non numeri». Ma il blocco israeliano è un ostacolo difficile anche per chi, come Basman, è pieno di risorse. Egli è stato invitato a un tour di 45 giorni in Europa, per dare rilievo alle indagini Onu sulla guerra del 2014 e per parlare al Parlamento europeo, al Parlamento italiano e in molti altri, subito dopo i fatti, quando il bisogno di assistenza medica in tutti gli ospedali era estremo. Ma nemmeno questi potenti organismi internazionali potrebbero farlo uscire da Gaza, e alla fine ha deciso di lasciare la propria testimonianza tramite Skype.

I due fratelli Elashi sono apolidi, non possono nemmeno ottenere la residenza a Gaza o una carta d’identità israeliana, in quanto hanno lasciato Gaza prima della guerra del 1967. Bayan ha un passaporto palestinese, che non è valido per viaggiare senza ulteriore documentazione.

Negli ultimi tre anni un team diretto dalla docente di giurisprudenza statunitense Susan Akram ha lavorato pro bono per fare intervenire l’Onu e diversi governi al fine di riunire queste famiglie. Akram ha fornito dossier e lettere sul loro caso al commissario generale dell’Unrwa e agli avvocati di alto livello dell’Unrwa, alle sedi dell’Unhcr di Ginevra e della Giordania, al capo dell’Icrc e alla delegazione della Croce Rossa in Palestina/Israele, ai funzionari per i rifugiati del consolato Usa a Gerusalemme Est, al ministro per le questioni palestinesi del ministero egiziano per gli affari esteri (per fornire documenti di viaggio per l’accesso in Egitto) e al governo giordano tramite l’Unrwa.

Akram ha detto il mese scorso che «le diverse organizzazioni delle Nazioni Unite hanno una chiara responsabilità nella promozione di una soluzione duratura per riunire le famiglie». La possibilità di azione legale negli Usa per assicurare il loro ritorno si è rivelata impossibile. Una mezza dozzina di studi legali negli Stati Uniti hanno provato ad affrontare le loro cause, anche il Comitato arabo-americano per l’anti discriminazione (Adc), senza risultati. Uno studio legale importante, dopo aver accettato il caso lo ha abbandonato, dicendo che è «troppo controverso» e che i suoi avvocati non volevano lavorarci.

La vecchia madre di Basman, Fadwa Al-Afrangi, dal Texas, crede ancora di poter rivedere suo figlio, inshallah. Sorride mentre lavora a maglia a una coperta bianca e blu per bambini. Maglioni, sciarpe e scalda piedi sono accumulati in borse regalo per occasioni ancora ignote. Qui a Dallas lei è al centro di una famiglia devota, unita felicemente nonostante tutto ciò che le è successo negli ultimi 13 anni. Quando i 5 figli di Fadwa sono stati incarcerati la comunità le si è stretta attorno. Oggi sua figlia Maha Elashi, sorella di Basman, si è trasferita da Boston per stare con lei, lasciando suo marito da solo. Accanto vivono la cognata Majida, moglie di Ghassan, e un’insegnante con 4 figli.

Fadwa parla di quando il confine tra Egitto e Gaza verrà aperto, e lei potrà andare a trovare Basman e Bayan. Asma, una delle figlie di Majida, sogna anche lei di andare a Gaza. Asma è patologa del linguaggio, e come suo padre Ghassan, il filantropo condannato a 65 anni di carcere, vuole usare la sua esperienza per aiutare la gente nel luogo in cui la straordinaria storia della sua famiglia è cominciata.

Seduto da solo nel silenzio notturno del suo ospedale a Gaza, davanti allo schermata di Skype, Basman dice di credere anche lui che alla fine ci sarà giustizia, e che il sogno della sua famiglia di essere riunificata si avvererà. «Sono molto felice qui a Gaza, il mio solo problema è che mi trovo in un campo di concentramento. Avendo un passaporto potrei rivedere la mia famiglia. Senza passaporto non rivedrò nessuno di loro per il resto della mia vita».

 


Victoria Brittain ha vissuto e lavorato come giornalista a Saigon, Washington, Algeri e Londra. Ha scritto da più di 30 Paesi africani, da Cuba, Grenada e Palestina per pubblicazioni inglesi e francesi. E’ stata corrispondente estera e editore estero associato per il Guardian per 20 anni. Ha scritto diversi romanzi sull’Africa, su Guantanamo Bay e argomenti simili – recentemente «Shadow Lives, le donne dimenticate della guerra al terrore».

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