Maan News
venerdì 13/2/2015

Hamas ritorna cautamente all’Asse della Resistenza
di Ramzy Baroud

Traduzione di Cristiana Cavagna

Nonostante il successo della resistenza contro l’avanzata dell’esercito israeliano a Gaza, le mosse di politica regionale di Hamas negli ultimi anni non hanno portato risultati.
Isolato sia da Israele che dagli altri partiti arabi, senza aiuto da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmoud Abbas, il Movimento di Resistenza Islamico si trova ancora una volta di fronte a scelte difficili e sembra propendere per un cauto ritorno al vecchio campo di appartenenza, di Iran e Hezbollah. Questa volta la mossa è particolarmente rischiosa. Le altre opzioni per Hamas comunque sono troppo limitate o semplicemente non esistono. Il movimento deve affrontare enormi sfide: un’economia in stallo, infrastrutture in rovina, i tunnel di Rafah distrutti e la prosecuzione dell’assedio da parte di Israele.

I progressi dell’accordo tra Hamas e Fatah l’anno scorso, seguiti dalla formazione di un nuovo governo, dovevano costituire i prerequisiti per ulteriori cambiamenti, compresa la riforma dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

La promettente spinta iniziale verso l’unità è stata interrotta dalla violenta guerra di Israele, la cosiddetta operazione “Margine Protettivo”, che ha portato alla morte e al ferimento di migliaia di persone. La guerra ha inoltre lasciato la già disastrata Gaza in condizioni ancora peggiori.
Invece di insediare velocemente dei ministri del governo a Gaza, facendo entrare denaro nella Striscia devastata ed iniziando subito il processo di ricostruzione, il governo di Rami Hamdallah, che si trova a Ramallah ha rinviato tutto sulla base di quello che può essere visto solo come un ragionamento politico.
Senza un’apertura verso l’esterno, anche se limitata, Gaza non sarà in grado di reggere molto a lungo.

Neanche il tentativo di Hamas di coinvolgere l’Egitto alla ricerca di una via alternativa per rompere l’assedio ha prodotto risultati. L’Egitto lo scorso marzo ha dichiarato Hamas organizzazione terrorista. Più recentemente, l’ala militare di Hamas, la Brigata Izz al-Deen al-Qassam, si è ritrovata dichiarata fuorilegge ed accusata di “terrorismo” da un tribunale egiziano.
Con i tunnel distrutti e una “zona cuscinetto” stabilita e fortificata intorno alla Striscia di Gaza dal lato egiziano del confine, l’assedio è ora completo. Gaza sarebbe ancora sopravvissuta, se la guerra di Israele non avesse lasciato dietro di sé migliaia di famiglie senza casa, più di 11.000 persone ferite e ridotte in povertà.

L’anno scorso una conferenza di donatori al Cairo ha preso l’impegno di ricostruire Gaza, ma pochi hanno inviato aiuti. Le Nazioni Unite e la Lega Araba stanno nuovamente facendo appello perché le promesse di aiuto vengano mantenute. Ma anche se ciò avvenisse, gli Stati Uniti ed i loro alleati pretendono che il denaro non venga gestito da Hamas.
Allora, che cosa deve fare Hamas?

Prima delle cosiddette primavere arabe del 2011, la regione era divisa in due aree politiche. Una è nota come “asse della resistenza”, o anche lo schieramento del “rifiuto”. Ne fanno parte Iran, Siria, Hezbollah e Hamas. L’altra è il campo dei “moderati”, che aggrega gli alleati regionali degli Stati Uniti. Quest’ultima aveva la scopo di controbilanciare la prima.
Già esisteva la divisione tra sunniti e sciiti, ma non era così netta come oggi. La presenza di Hamas, organizzazione sunnita, all’interno di un più ampio schieramento sciita e la netta demarcazione della lotta tra Stati Uniti e Israele da una parte e “l’asse della resistenza” dall’altra rendevano irrilevante ogni differenza settaria.

Inizialmente le primavere hanno suscitato grandi speranze, prima che sconvolgessero l’intera regione. Hanno portato alla guerra ed a sanguinosi conflitti, ma anche ad una polarizzazione politica e settaria senza precedenti.

Una guerra in Siria è sembrata il miglior scenario per diversi poteri occidentali, compresi Stati Uniti e Israele. L’Iran, la Russia e i paesi arabi sono entrati nella mischia, ognuno con differenti obbiettivi. Per l’Iran la guerra probabilmente ha rappresentato l’opportunità di estendere la propria influenza regionale. Con l’entrata di Hezbollah nel conflitto – che da allora ha coinvolto diversi gruppi sia locali che stranieri – l’aspetto sunnita-sciita del conflitto è diventato evidente.
Nessuno avrebbe permesso in alcun modo ad Hamas di agire al di fuori del terribile paradigma settario. Il gruppo doveva schierarsi, e in fretta. Nel frattempo i palestinesi sono rimasti divisi persino quando la loro unità era di massima importanza. L’Autorità Palestinese di Abbas ha continuato a restare impegnata in una vacua discussione sul “processo di pace”, prestando scarsa attenzione alle migliaia di morti e di rifugiati palestinesi disperati in Siria.
L’azzardo di Hamas alla fine non ha funzionato. Ancor più impoverita ed isolata, Hamas ha visto un possibile aiuto nell’unione delle forze con Fatah di Abbas, in modo da porre termine alle divisioni e cercare una via d’uscita a ciò che era diventato un paradigma senza speranze.
Allora Israele ha attaccato Gaza. Il dibattito mediatico era incentrato sul coinvolgimento non provato di Hamas nel rapimento ed uccisione di tre giovani coloni israeliani. Era improbabile che fosse così. Con l’allontanamento di Hamas dall’ “asse della resistenza” e il suo isolamento da parte del campo arabo “moderato”, il movimento era nel momento di maggiore debolezza. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha colto l’opportunità di assestare un colpo definitivo ad Hamas aggredendo Gaza con brutalità senza pari. L’intenzione era di distruggere Hamas politicamente prima di colpire la sua forza militare.

La massiccia distruzione delle infrastrutture di Gaza non era la consueta crudeltà di Israele nei confronti dei palestinesi. Era finalizzata ad assicurare che Hamas non avrebbe avuto possibilità di governare Gaza dopo la guerra, e sarebbe semplicemente collassato di fronte al compito impossibile di ricostruire la Striscia senza aiuti, senza cemento né un’ancora di salvezza materiale di alcun tipo.

Gli arabi da un lato erano impegnati con i loro problemi interni, dall’altro osservavano la tremenda punizione di Israele nei confronti di Gaza con un misto di angoscia, soddisfazione e attesa. Quelli che spingevano Hamas ad allontanarsi dall’Iran non si sono fatti avanti per colmare la disparità di armamenti, denaro ed altri aiuti concreti. Non solo parecchi, all’interno di Hamas, lo hanno visto come un tradimento, ma altri, che non avevano mai preso in considerazione una rottura con l’Iran, hanno iniziato a premere perché il movimento riconsiderasse le proprie alleanze politiche.

Un manifesto a Gaza City ringrazia l’Iran per il suo sostegno alla causa
palestinese dopo l’aggressione di Israele del 2012. (AFP)

Di fatto, il processo di ricucitura dei rapporti con l’Iran è durato mesi, e molti segnali – benché vaghi – di qualche forma di riavvicinamento tra Iran ed Hezbollah da un lato e Hamas dall’altro sono sembrati condurre ad una prevedibile conclusione.

Quando un elicottero da combattimento israeliano ha colpito un convoglio nella provincia siriana di Quneitra il 18 gennaio, uccidendo sei combattenti di Hezbollah e un comandante iraniano, Hamas ha subito fatto le condoglianze. Il più rilevante di questi messaggi è stato quello di Mohammed al-Deif, il capo delle Brigate al-Qassam. Deif ha invocato una lotta comune contro Israele.

Sono stati inviati anche messaggi politici, uno dei quali da parte dell’ex Primo Ministro del governo di Hamas, Ismail Haniyeh. “Dichiariamo la nostra piena solidarietà al Libano e alla resistenza libanese”, ha scritto, invitando all’unità contro “il principale nemico dell’ummah [comunità di tutti i fedeli musulmani, ndt.]”. Ciò indicava, insieme al richiamo alla resistenza pacifica in Siria da parte del leader di Hamas, Khaled Meshaal, che il tentativo di Hamas di rientrare nel campo dell’Iran era questione di tempo.

Effettivamente quel rientro avverrà al più presto, come indicato da Ahmed Yousef, ex consigliere principale di Haniyeh e membro influente del movimento. Egli ha affermato che Meshaal si sarebbe presto recato a Tehran per incontrare i principali leaders iraniani.

Il possibile ritorno di Hamas nel campo iraniano sarà probabilmente improntato alla cautela, ben studiato e probabilmente avrà dei costi. Vi è una crisi di fiducia tra tutte le parti. Per qualcuno all’interno di Hamas comunque questo ritorno era inevitabile.

Ma anche l’Iran e Hezbollah hanno bisogno di Hamas, almeno per farla finita con l’impostazione settaria prevalente, in cui si è invischiata la regione. L’immagine di Iran e Hezbollah, quest’ultimo un tempo considerato il baluardo della resistenza, è ai suoi minimi da sempre.

Qualcuno criticherà la nuova strategia di Hamas, altri apprezzeranno il suo ritorno al buonsenso. Ma per Hamas e per la resistenza palestinese a Gaza si tratta di una semplice questione di sopravvivenza.

Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, autore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia inedita di Gaza.”

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