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Venerdì, 17 Luglio 2015

 

Il ruolo della Rockefeller Diplomacy nella costruzione dell'Iran Deal

di Davide Vannucci

 

Alla base dell’Iran Deal, l’accordo sul nucleare di Teheran, siglato martedì a Vienna, c'è sicuramente la volontà del regime degli ayatollah di rientrare nel consesso internazionale e di risollevare l’economia, colpita dalle sanzioni. E c’è il desiderio di Obama di ridisegnare la mappa del Medio Oriente cooperando anche con il capofila dell’asse sciita. Ma accanto alla diplomazia istituzionale, che ha lavorato - prima in segreto, poi apertamente - all’intesa, ci sono altri gruppi di pressione che hanno cercato, per anni, di avvicinare i due fronti, in una sorta di freelance diplomacy, come la definisce Bloomberg.

 Tra questi, la famiglia Rockefeller che, attraverso un ente filantropico, il Rockefeller Brothers Fund – il cui patrimonio si aggira sugli 870 milioni di dollari – ha investito 4,3 milioni, sin dal 2003, per promuovere un patto sul nucleare, tramite un’organizzazione no profit di New York, guidata da ex diplomatici americani, l’Iran Project. Per più di un decennio questa ngo ha mantenuto un dialogo aperto con personaggi di spicco della politica iraniana, come l’attuale ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, uno dei principali artefici dell’intesa di Vienna. 

L’impegno dei Rockefeller per far dialogare Stati Uniti ed Iran, dopo la rottura operata dalla rivoluzione khomeinista, nasce già alla fine del 2001, dopo gli attentati alle Torri Gemelle. Su sollecitazione di Seyyed Hossein Nasr, un professore irano-americano della George Washington University, il presidente del Rockefeller Brothers Fund, Stephen Heintz, si convinse ad investire sul recupero di Teheran, nel momento in cui gli Stati Uniti erano focalizzati sulla guerra contro al Qaeda. Così il fondo decise di creare l’Iran Project, assieme alla United Nations Association of the U.S., una ong che promuove l’azione e gli ideali delle Nazioni Unite, guidata, per un certo periodo, da William Luers, ex ambasciatore americano in Venezuela e Cecoslovacchia. Luers prese contatti con Zarif, che all’epoca si trovava a New York, presso la missione diplomatica iraniana a Palazzo di Vetro. Aderirono all’Iran Project diplomatici di rango come Thomas Pickering, ambasciatore in Israele con Ronald Reagan ed all’Onu con George H.W. Bush, e Frank G. Wisner, ex rappresentante diplomatico in Egitto, figlio di un alto ufficiale dell’Office of Strategic Services (OSS) e, successivamente, della CIA.

Gli incontri segreti con gli ufficiali iraniani furono sospesi durante la presidenza Ahmadinejad. Ma i rapporti consolidati con Zarif–che all’epoca dell'Onu aveva stabilito forti legami col trio Luers/Pickering/Wisner –tornarono utili quando Rohani vinse le elezioni del 2013 e scelse come ministro degli Esteri l'ex rappresentante diplomatico a Palazzo di Vetro.

L’Iran Project è stata una delle armi mediatiche con cui è stato costruito il consenso dell’opinione pubblica americana intorno all’accordo. Ad esempio, ha sostenuto l’ipotesi che gli iraniani dovessero mantenere una limitata capacità di arricchire l’uranio, in modo da salvare la faccia. Negli sforzi è stato coinvolto, tra gli altri, il direttore della New York Review of Books, Robert Silvers, che ha pubblicato molti interventi di Pickering e di un altra esperta dell’Iran Project, Jessica Mathews. In sostanza, ha fatto da controcanto ai gruppi pro-israeliani, guidati dall’American Israel Public Affairs Committee, la voce più critica dell'Iran Deal.

Il sostegno dei Rockefeller non si è limitato all’Iran Project. Il fondo di famiglia ha donato 3,3 milioni di dollari al Ploughshares Fund, un'organizzazione di San Francisco che si batte per il disarmo e che, a partire dal 2010, ha speso 4 milioni di dollari per promuovere un'intesa con l’Iran e per guidare gruppi pacifisti e think tank verso il sostegno ad Obama. Quando il New York Times, il 23 giugno, pubblicò un editoriale piuttosto critico verso l’accordo (“Iran Deal’s Fatal Flaw”) Ploughshares si affrettò ad organizzare una campagna di risposta.

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