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7 settembre 2015

 

Netanyahu blinda la fortezza Israele

di Andrea Muratore

 

L'emergenza immigrazione mette alla prova anche Israele, il cui premier, Netanyahu, si è già detto pronto a costruire un muro di separazione per tenere alla larga i migranti. Un clima da fortezza assediata figlio della schizofrenia e delle paranoie della leadership di Tel Aviv.

 

Nel territorio di Israele tira un’aria sempre più rovente e la tensione si fa giorno dopo giorno più palpabile. Dopo le roventi dichiarazioni seguite all’annuncio dell’accordo sul nucleare iraniano, in queste ore Benjamin Netanyahu ha imposto un ulteriore salto in avanti alla sua politica volta a presentare all’opinione pubblica nazionale uno stato sionista cinto d’assedio da innumerevoli nemici, una fortezza da blindare e proteggere, costi quel che costi. Procedendo su questa linea, che del resto ha consentito al Likud di restare in sella e di allungare la sua era di governo, Netanyahu ha rilasciato importanti dichiarazioni in seguito alla proposta di accoglienza di una quota di profughi siriani avanzata da parte dell’opposizione, scagliandosi contro qualsiasi iniziativa in tal senso e, anzi, operando in senso opposto.

Il primo ministro sionista ha infatti accelerato i tempi per l’inizio dei lavori volti a estendere la recinzione di oltre 240 km posta sul confine israelo-egiziano nel Sinai in modo tale da “proteggere” anche la frontiera con la Giordania. Lo scopo dell’iniziativa è quello di alzare una barriera invalicabile per coloro che desiderassero varcare i confini del paese, ma in fin dei conti essa appare come decisamente deleteria. Blindando la “Fortezza Israele” Netanyahu accentua l’isolamento del suo paese a livello internazionale, mostrandosi nuovamente e inequivocabilmente come una fonte di instabilità piuttosto che di ordine e sicurezza nella già travagliata area mediorientale. Il vallo previsto al confine con la Giordania sicuramente complicherà le cose anche nel paese limitrofo, già vessato dall’eccessivo numero di profughi che si sono riversati entro i suoi confini a seguito dell’escalation del conflitto siriano dell’ultimo anno. Ai meglio informati di sicuro la notizia non apparirà per niente sconvolgente. Il cinismo israeliano nei confronti della tragedia dei popoli confinanti appare coerente con tutte le politiche adottate dallo stato sionista negli ultimi anni. Nella guerra civile siriana, Israele ha sempre mantenuto una posizione ambigua. L’apparentemente impossibile sintonia venutasi a creare con un antico nemico ideologico, l’Arabia Saudita dei wahabiti dimostra quanto poco Tel Aviv sia interessata alla sconfitta dell’ISIS, storico protetto di Riyadh, mentre ben chiare sono state le prese di posizione di Israele nei confronti di Assad, il cui esercito è stato colpito da numerosi raid aerei nella zona del Golan (dove sorge un’ulteriore linea di confine invalicabile e estremamente munita).

Triste ironia: il paese che si dichiara rappresentante internazionale del popolo ebraico, dello stesso popolo figlio della Diaspora e reduce dalla Shoah, si mostra indifferente e insensibile alla contemporanea diaspora di centinaia di migliaia di disperati in cerca di un futuro migliore, e nel contempo continua a tenere sotto il proprio tallone l’indifesa Striscia di Gaza, trasformata dalle abominevoli politiche israeliane nel più grande lager a cielo aperto del mondo. Appaiono così vicine, le tragedie di questi due popoli, i palestinesi e i siriani, figli della stessa cultura e della stessa storia, vittime in gran parte innocenti di forze esterne decisamente violente, in balia di un destino ignoto ma decisamente poco promettente, osteggiati apertamente da una nazione da sempre facile a reazioni schizofreniche. L’ambiguità di Israele continua a tenere in bilico la spada di Damocle sul Medio Oriente; Netanyahu ha compiuto una mossa che lo porta ancora oltre, ancora più a destra, su posizioni ancora più oltranziste. Il clima da fortezza assediata che sta prendendo corpo vivacemente a Israele è decisamente qualcosa di pericoloso. Tuttavia, il recente maggiore coinvolgimento della Russia nella situazione siriana, il ritorno dell’Iran nel contesto diplomatico e una maggiore presa di coscienza occidentale della reale portata delle politiche israeliana offrono margini di manovra per canalizzare le eruzioni improvvise del vulcanico Benjamin. Barricandosi in una vera e propria Fortezza, egli non fa altro che cacciarsi in un vicolo cieco, dato che aizzare le paure riguardo la minaccia di fattori esterni per risolvere le conflittualità interne al paese rischia di rivelarsi una strategia a doppio taglio, che il governo del Likud rischia di pagare a caro prezzo.