http://www.eastonline.eu/it/

Lunedì, 23 Febbraio 2015

 

In Libia svolta per una restaurazione militare nel mondo arabo in ottica anti-iraniana

di Tommaso Canetta

 

Dopo le azioni militari della Giordania contro l’Isis in Siria e Iraq sono arrivati anche i bombardamenti contro l’Isis in Libia. Due Paesi arabi e sunniti, l’Egitto e la Giordania, storicamente alleati dell’Occidente nella regione. E se il Cairo sembrava essersi allontanato con l’avvento dei Fratelli Musulmani e la presidenza di Mohammed Morsi, da quando sono tornati al potere i militari con Al Sisi il riavvicinamento è cominciato.

 

La Libia è l’ultimo capitolo, che segue però la repressione del terrorismo islamico in patria, al confine col Sinai ma non solo, la difesa a oltranza dei cristiani, i buoni rapporti con Israele e i tentativi di accreditarsi un ruolo nella soluzione del caos siriano.

«È improprio parlare di Isis in Libia», spiega Claudio Neri, direttore dell’Istituto Italiano di studi strategici. «In parte come già successo nel passato con Al Qaeda, Isis è diventato un “brand” che altre sigle prendono in prestito per ottenere maggiore visibilità mediatica. I gruppi terroristi in Libia esistono da anni, non sono certo arrivati con la nascita del Califfato islamico». Questi gruppi – in primis Ansar Al Sharia, alleato e in parte origine del neonato Isis libico – stanno guadagnando posizioni grazie allo scontro interno alla Libia tra il governo riconosciuto internazionalmente, che è dovuto fuggire a Tobruk e che può contare sull’appoggio di buona parte dell’apparato militare, specialmente del generale Khalifa Haftar, e il governo sostenuto dalle fazioni islamiche vicine ai Fratelli Musulmani che ha sede a Tripoli.

Negli ultimi giorni l’Egitto ha approfittato del grande clamore che hanno creato le bandiere nere dell’Isis a pochi chilometri dalle coste europee, e dello sdegno suscitato dalla barbara esecuzione di 21 prigionieri egiziani copti, per chiedere all’Onu di intervenire con la forza a sostegno del governo legittimo di Tobruk, il cui premier Al Thani ha ventilato il rischio che «se il Mondo non interviene l’Isis arriverà in Italia». Per ora l’Onu continua a indicare la via diplomatica ma, come spiega Mattia Toaldo, analista dell’European Council on Foreign Affairs, «l’attuale embargo Onu sull’invio di armi in Libia è già di fatto aggirabile. È stato riconosciuto all’Egitto il diritto di colpire l’Isis in territorio libico con il supporto dell’aviazione del generale Haftar, non serve insomma nessun passaggio formale per autorizzare quel che già sta avvenendo».

Le mosse del Cairo si spiegano come indirizzate verso una molteplicità di obiettivi: innanzitutto a fini di stabilità interna il governo di Al Sisi ha un forte interesse a colpire duramente le fazioni estremiste islamiche. In secondo luogo nella sua rincorsa a riaccreditarsi come attore regionale di primo piano avrebbe molto da guadagnare se in Libia venisse instaurato un regime militare “fratello”. «Gli oppositori del governo di Tobruk, e del suo alleato egiziano, parlano di una “restaurazione”, di un ritorno al regime gheddafiano pre-primavere arabe», racconta ancora Toaldo. «Ma questa è una ricostruzione imprecisa: è vero che alcuni soggetti sono stati legati in passato al regime di Gheddafi, ma il leader libico era un paria regionale, un eventuale regime militare legato all’Egitto sarebbe una cosa assolutamente diversa».

C’è poi un terzo obiettivo che interessa l’Egitto ma ancor di più le monarchie del Golfo, che stanno finanziando il Cairo in ottica di contrasto alla Fratellanza Musulmana e supportando il nuovo corso di Al Sisi. Da quando le primavere arabe sono fallite ed è esploso il caso Isis, nella regione mediorientale ha guadagnato molte posizioni – soprattutto a livello diplomatico ma non solo – il cosiddetto “asse sciita”, riconducibile a Teheran, avversario regionale di Riad. In Iraq, in Siria, in Yemen gli sciiti hanno guadagnato posizioni sul terreno ma, fatto più preoccupante per i Sauditi, essendo i più efficaci nemici dell’Isis hanno anche ottenuto consenso internazionale. Il nuovo corso in Iran impresso dal presidente Rohani era stato da molti visto come una mano tesa verso l’Occidente, per cercare di ottenere un riconoscimento formale del proprio ruolo di potenza regionale, uscendo così dall’isolamento internazionale. Prospettiva questa che spaventa molto i sauditi e non solo. L’affermazione di responsabilità dell’Egitto e delle monarchie del Golfo in Libia – subito dopo quella della Giordania in Siria e Iraq – ha allora anche il senso di volersi riaffermare nel lungo periodo come gli alleati più affidabili per l’Occidente, evitando il rischio di una svolta favorevole all’Iran e ai suoi alleati (in primis Assad in Siria).

«Il rischio – conclude Toaldo – è però che le forze armate egiziane vadano in over-stretch. Essendo impegnate su troppi fronti, dal Sinai alla Libia, non riescano cioè a reggere nel medio periodo. Questa è inoltre una prospettiva che probabilmente preoccupa anche Israele, che vedrebbe indebolito il contrasto alle fazioni fanatiche islamiche sul confine con l’Egitto».

«Il destino della Libia mi pare molto legato anche a quelle che saranno le decisioni dell’Occidente», afferma Neri. «E da quelle decisioni avremo un’indicazione sullo stato di salute delle potenze alleate. Se dovessero prevalere le divisioni e l’indecisione rischieremmo davvero di lasciare troppo spazio di manovra ai fanatici islamici, dando anche un’inquietante segnale di debolezza. Pesa per ora l’assenza degli Stati Uniti nel dare una visione strategica per l’area, ma gli Stati europei dovrebbero in ogni caso decidere una linea comune a cui attenersi». Anche considerando che la Russia, con cui dal crollo dell’Urss i rapporti non erano così tesi, è pronta a infilarsi nelle crepe dello schieramento occidentale per guadagnare posizioni: con l’Egitto di Al Sisi già intrattiene buoni rapporti, così come con il governo libico di Tobruk. Pezzi di una scacchiera su cui sembra ufficialmente ricominciato il Grande Gioco che non possono essere abbandonati all’influenza dell’avversario.