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16 luglio 2015

 

La ridefinizione degli equilibri geopolitici nel Medio Oriente

di Fabio Falchi

 

Con l’accordo di Vienna sul nucleare iraniano, nonostante la fortissima opposizione di Israele, non si registra solo un netto successo dell’Iran, ma pure una svolta della politica di Washington. La presidenza Obama si è caratterizzata finora per aver lasciato ampio spazio ai propri alleati, in particolare alle petro-monarchie del Golfo. Benché ancora impantanata in Afghanistan, l’America, preso atto dei rischi che correva a causa di una “sovraesposizione imperiale”, si è ritirata dall’Iraq e poi ha cercato di pilotare la cosiddetta “primavera araba”, con risultati tutt’altro che positivi per Washington. La situazione, infatti, è in gran parte sfuggita al controllo degli “strateghi statunitensi”, vuoi per la rivalità fra i suoi stessi alleati (come in Egitto ove Arabia Saudita e Qatar si sono scontrati, finché i fratelli musulmani, appoggiati dal Qatar, sono stati sconfitti), vuoi perché la Siria si è rivelata un osso ben più duro della Libia (in cui, dopo l’assassinio dell’ambasciatore americano da parte degli islamisti, si è dimostrato come la “vecchia” politica delle cannoniere ben difficilmente possa essere coronata da un pieno successo).

Come se non bastasse, l’aggressione di una miriade di bande armate islamiste contro la Siria ha moltiplicato le ambizioni della Turchia, che ha contribuito a trasformare la Mesopotamia in un lago di sangue, mentre la stessa Arabia Saudita continua ad essere una sorta di “spina nel fianco” degli Usa. Perfino la cosiddetta “guerra del petrolio”, innescata dalla decisione dei sauditi di tenere basso il prezzo del greggio, si può interpretare in più modi: se danneggia l’Iran e la Russia, crea problemi pure agli Usa, che mirano a diventare i primi produttori mondiali di petrolio grazie allo shale oil. Ma i rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita da tempo non sono né facili né chiari. Non è una novità che nell’attentato dell’11 settembre con ogni probabilità fossero implicati “ambienti sauditi”, né si può ignorare il ruolo dei “servizi sauditi” nella formazione di Al Qaeda negli anni Ottanta del secolo scorso (sia pure per conto degli Usa, che intendevano destabilizzare il regime filosovietico di Kabul, per attirare nella “trappola afghana” l’Unione Sovietica). (1) Il “quadro geopolitico” della regione medio-orientale poi si è ulteriormente complicato per la nascita dell’Isis da una faida interna alla galassia islamista e per la sua rapida espansione, che ha permesso a questo nuovo gruppo islamista di “mettere radici” anche in Egitto e in Libia. Peraltro, è indubbio che l’Isis (che è “ferocemente” anti-sciita) goda del sostegno, più o meno “indiretto”, da parte della Turchia e delle petromonarchie del Golfo. Gli stessi Usa hanno giocato questa “carta” contro il governo sciita di Baghdad e contro la Siria, dacché è palese che le “colonne motorizzate” dell’Isis che scorrazzano in Iraq e in Siria sarebbero facilmente fatte a pezzi dagli aerei americani se gli Stati Uniti volessero davvero “fare sul serio”. Evidentemente si è in presenza di una “geopolitica del caos” che, nonostante tutto, “fa comodo” non solo agli alleati islamici degli Usa ma in un certo senso (almeno per ora) anche agli Usa, che stanno giocando, come al solito, su più tavoli.

In questo contesto, non sorprende allora che la Casa Bianca voglia cercare di sbrogliare l’intricata matassa medio-orientale direttamente, ridimensionando il ruolo dei propri alleati. Non si deve dimenticare che gli Usa giocano sulla scacchiera globale, non su quella regionale. E proprio questo è il “punto” su cui ha sempre insistito Zbigniew Brezinski, alle cui analisi verosimilmente si ispira la politica estera di Obama e che ritiene che ogni sforzo vada fatto per porre al più presto sotto il controllo degli Usa la regione mediorientale, tenendo conto delle molteplici sfide che Washington deve affrontare. Sicché, sarebbe indispensabile una nuova “sistemazione” degli equilibri geopolitici mediorientali, che secondo Brezinski non può non basarsi su un accordo con Teheran, al punto che lo studioso di origine polacca si è spinto a dichiarare non solo che Israele è al sicuro con le sue 150-200 testate atomiche (mentre l’Iran anche se riuscisse a fabbricare un ordigno nucleare non sarebbe così folle da “suicidarsi” lanciandolo contro Israele), ma che sarebbe pure ora di arrivare alla creazione di uno Stato palestinese, per “stabilizzare” l’intera regione. (2)

Nondimeno, non si vede come gli Usa possano imporre una siffatta “linea geopolitica” ai loro alleati, considerando gli interessi che sono in gioco e quanto siano diversi gli scopi dei vari attori regionali, tanto più che fin quando Washington si atterrà alla strategia “no boots on the ground” sarà inevitabile per gli americani dipendere ancora in buona misura dalle scelte che compiranno i loro alleati. D’altronde, in Siria si continua a combattere duramente e l’esercito siriano adesso può contare pure sull’appoggio di numerosi “volontari iraniani” oltre che su quello di Hezbollah. Ma chi dice Hezbollah dice non solo Iran, bensì anche Israele, dato che è noto che il “Partito di Dio” è il nemico principale di Israele, che potrebbe pure mettere i “bastoni fra le ruote” a Washington scatenando un altro conflitto proprio con Hezbollah. Ma è la stessa “questione siriana” che, essendo ben lungi dall’esser risolta (benché la guerra contro Damasco non possa durare “in eterno”), è forse, insieme con l’ostilità israeliana, l’ostacolo maggiore da superare per Washington. In ogni caso, anche l’accordo di Vienna è il segno del fallimento del cosiddetto “unipolarismo” degli Stati Uniti, che devono pure ridefinire i loro rapporti con il continente latino-americano (ossia quello che una volta consideravano il loro “cortile di casa”), far fronte alla gigantesca crescita economica della Cina e contrastare la rinascita della potenza russa. E ora devono anche “gestire” una nuova crisi: quella di Eurolandia.

La “gestione” della crisi di Eurolandia in un clima di guerra fredda con la Russia

Anche se forse è eccessivo sostenere che in questi giorni si starebbe assistendo ad una sorta di “tragedia greca”, non vi è dubbio che la situazione che si è creata in Grecia, dopo la vittoria del “No” nel referendum del 5 luglio scorso, presenti aspetti che non è esagerato definire drammatici. Sarebbe però un grave errore concentrarsi, come molti invece hanno fatto, sulla “figura” di Tsipras (secondo alcuni un “patriota”, secondo altri una specie di Ponzio Pilato, se non addirittura un “traditore”), perdendo di vista il significato politico di questo “No” detto dai greci ai “figli di Troika” e soprattutto che si è giocata (e si sta ancora giocando) una partita geopolitica che va ben oltre i confini della Grecia. Difficile comunque prevedere che accadrà in Grecia nelle prossime settimane o nei prossimi mesi, anche se il clima politico è incandescente. Ma quel che più rileva è che la piccola Grecia si trova nella non invidiabile posizione del classico vaso di coccio tra vasi di ferro. Lo scontro vero, difatti, è stato fra Germania e Stati Uniti, tanto che si è trovato un accordo fra l’Eurogruppo e il governo greco solo per le forti pressioni di Washington su Atene e Berlino.

Non si deve però fraintendere. Non si tratta come molti “fantasticano” di uno scontro che veda la Germania assumere la funzione di guida politica del continente europeo e “mettere la prua” verso la Russia. Non a caso, a sostegno della Germania contro la Grecia si sono schierati i Paesi europei notoriamente più filoatlantisti e “russofobi” (Olanda, Finlandia, Polonia e Paesi Baltici). E se la Germania dovesse recidere il legame con gli Usa e puntare verso la Russia i primi ad invocare l’intervento di “mamma America” sarebbero proprio questi Stati. Ma la Germania vuole davvero questo? Certo, tutto (o quasi) è possibile, ma non tutto è probabile. Come dimostra la politica tedesca da quando si è introdotto l’euro (che si è rivelato un moltiplicatore di squilibri e conflitti di ogni genere e una camicia di Nesso per i Paesi dell’Europa meridionale), Berlino mira a creare un polo geoeconomico baltico per “fagocitare” i Paesi “euromediterranei”, cercando di non interferire con gli interessi geostrategici degli Usa, ma inevitabilmente minacciando di disgregare la stessa Unione Europea che gli americani difendono, proprio perché, in quanto debole e controllata da centri di potere atlantisti, è funzionale alla politica di potenza statunitense. I Paesi europei hanno concesso molto alla Germania per la necessità di ancorarla saldamente all’Atlantico, non certo per prendere le distanze dalla superpotenza d’oltreoceano. La “frizione” tra Germania e Stati Uniti va dunque interpretata diversamente.

Invero, Berlino, sembra puntare ad una specie di pax economica teutonica, in cambio di un pieno riconoscimento della “sovranità (geo)politica” degli Usa sul continente europeo. Uno scenario inquietante, ma in qualche modo previsto e temuto da Alexandre Kojève già nel 1945. (3) D’altra parte, come dimenticare che in questi anni di politica economica “eurotedesca” la Nato si è potuta spingere indisturbata sino ai confini occidentali della Russia? E che in Europa orientale gli Usa stanno costruendo uno scudo antimissile (benché in Occidente si sostenga che dovrebbe servire contro un eventuale aggressione iraniana, di fatto inesistente e perfino assurda dopo l’accordo di Vienna)? E come dimenticare le responsabilità della Germania per la guerra civile in Iugoslavia negli anni Novanta o per quanto concerne quello che è accaduto in Ucraina? Insomma, bisogna davvero aver perso la bussola se si pensa che a Berlino ci si stia adoperando per da vita ad un asse Berlino-Mosca. Né si dovrebbe ignorare che la presenza massiccia di militari americani in Europa orientale non è rivolta solo contro la Russia, ma ha anche la funzione di tenere “sotto scacco” il continente europeo e in particolare la Germania. Una Germania che non vuole né sarebbe in grado da sola di opporsi agli Usa. Del resto, dopo la riunificazione della Germania anche un duopolio franco-tedesco (e a maggior ragione un asse Parigi-Berlino-Mosca) pare essere un “sogno” di chi non è rimasto al passo con i tempi. Per controbilanciare la potenza economica tedesca la Francia dovrebbe rinunciare alla logica politica dello “Stato predatore” e, come auspicava Kojève, cercare di costruire un “polo mediterraneo” insieme con l’Italia e la Spagna. Un’Europa che camminasse su due gambe, una baltica e una mediterranea, potrebbe più facilmente smarcarsi dagli Usa e “intendersi meglio” con la Russia, sia sotto il profilo economico che sotto quello geopolitico. Ma non ci si deve illudere. Non sarebbe un obiettivo facile da raggiungere né è probabile che la Francia, insieme con la Spagna e l’Italia, sia disposta (nel medio periodo, s’intende) a fare questo passo. Comunque sia, la crisi greca ha dimostrato che interessi economici e interessi geostrategici non necessariamente coincidono. Non solo. Ha dimostrato che si possono “aprire” nuovi spazi politici, assai diversi da quelli immaginati dai “figli di Troika”, e che il vento euroscettico può davvero spazzar via “questa” Unione Europea. E anche se nessuno può prevedere come si evolverà una situazione che più fluida non potrebbe essere, si può affermare con certezza che il debito greco è “inesigibile” e che i problemi di Eurolandia non sono stati affatto risolti. E prima o poi tutti i nodi verranno al pettine.

 

NOTE

(1) Vedi Gabriel Kolko, Il libro nero della guerra, Fazi, Roma, 2005, p. 514 e l’intervista a Z. Brzezinski, de “Le Nouvel Observateur”, Parigi, 15/1/1998.

(2) Vedi A Time of Unprecedented Instability? (http: // www. Foreign policy. com/articles /2014/07/21/ a_time_of_unprecedented_instability_a_conve-rsation_with_zbigniew_brzezinski%20).

(3) Vedi Alexandre Kojève, L’Empire latin, in “La Règle du jeu”, n. 1, maggio 1990, p. 94.

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domenica 19 luglio 2015

 

Medio Oriente: la grande guerra continua

di Lorenzo Trombetta

Ansa

 

Un Iran più forte e alleato dell’Occidente, anche in funzione anti-Stato islamico (Isis), rischia di non essere un fattore di stabilità in Medio Oriente. Ma potrà invece scatenare le reazioni dei rivali storici di Teheran in tutti i teatri in cui il drammatico conflitto regionale è in corso. Ciò potrà portare più violenze e più atti di terrorismo, secondo diversi esperti dell’area.

Intimoriti da un Iran ora non più strozzato dalle sanzioni, l’Arabia Saudita e i suoi alleati sono sul piede di guerra. Secondo la stampa britannica, che cita fonti di Riad, il regno del Golfo minaccia di avviare un proprio piano nucleare. Sulla stampa mediorientale e sui social network si sono intanto scatenate polemiche e dibattiti tra chi è convinto che Teheran svolgerà il ruolo di pompiere dell’incendio regionale, e chi invece si dice preoccupato delle conseguenze di un più audace e muscolare interventismo iraniano nelle contrade arabe in fiamme.

Mentre in Yemen la campagna aerea guidata dall’Arabia Saudita del nuovo re Salman proseguirà contro i miliziani filo-iraniani, un Siria il conflitto intestino ha mietuto più di 220mila morti. E ha di fatto costretto la metà dei siriani a lasciare le proprie case, in patria o all’estero.

 

In questa guerra l’Iran ha da tempo investito molte risorse: aiuti petroliferi e prestiti ma anche consiglieri militari, Pasdaran e milizie libanesi, irachene e afghane tutti impegnati a puntellare il sistema di potere incarnato dalla famiglia Assad, al comando da oltre quarant’anni.

L’Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia sono invece in prima linea nel sostegno a varie fazioni di oppositori armati siriani. Privi di un sostanziale aiuto occidentale, questi miliziani nel corso degli anni si sono radicalizzati. Alcuni per convinzione altri per necessità hanno ormai sposato la causa jihadista. In Iraq, l’Iran e gli Stati Uniti, assieme a Francia e Gran Bretagna, già partecipano alla coalizione internazionale anti-Isis.

La convergenza di interessi esiste ma potrebbe essere formalizzata da accordi politici più strutturali in nome della “lotta al terrorismo”. Ne rimarrebbero fuori le potenze del Golfo, espressione della comunità sunnita sempre più nostalgica del baathismo e a cui di fatto nel 2003, con il rovesciamento del regime di Saddam Hussein, è stato tolto il potere.

L’Isis non rimarrà certo a guardare. E continuerà a capitalizzare il malcontento sempre più dilagante di ampie porzioni di Medio Oriente dominato da un sunnismo rurale, di stampo conservatore e tribale.

Questa marea sunnita, spesso ignorata da chi si preoccupa delle “minoranze” della regione, si sente da troppo tempo abbandonata dai poteri centrali, descritti come complici dei “neosafavidi” – gli iraniani – e tradita dagli Usa ormai “in combutta con i persiani”.

E molti di quei giovani arabi che nel 2011 scesero in piazza per chiedere riforme e giustizia sociale, accettano ora con meno remore il passaggio jihadista verso il “paradiso dei martiri”. (Ansa, 15 luglio 2015)

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