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09.09.2015

 

Dalla guerra in Iraq all’emergenza migranti: quando al caos si aggiunge altro caos

di Emanuele Vena

 

L’invasione dell’Iraq del 2003 è alla base dell’attuale emergenza migranti che sta investendo l’Europa? Non proprio. Tuttavia, rappresenta indubbiamente una parte del problema e, al tempo stesso, un monito in riferimento alle strategie da evitare accuratamente per provare a risolvere la situazione attuale.

Sembra ormai pacifico ed acclarato sostenere che una larga fetta di responsabilità dell’attuale situazione di instabilità presente in territorio iracheno sia addossabile alla strategia adottata dagli Stati Uniti nella ricostruzione del Paese, a seguito della caduta del regime di Saddam. A partire dalla gestione dell’esercito Baath, il cui rapido smantellamento ha portato alla liquidazione di un consistente numero di soldati e di ufficiali senza lavoro né pensione. Veri e propri “cani sciolti” i quali, alla lunga, hanno fisiologicamente ingrossato le fila dell’opposizione jihadista al nuovo regime, come dimostrato dalle cifre che evidenziano come più della metà dei leader dello Stato Islamico siano in realtà ex combattenti di Saddam. Una situazione ulteriormente aggravata dalla debolezza del nuovo esercito, ricostruito valorizzando più la fidelizzazione che la competenza, con il risultato di generare truppe manovrabili dal governo ma estremamente impreparate a contrastare l’offensiva fondamentalista che punta a rovesciare il precario regime di Baghdad.

L’attuale situazione in Siria poggia principalmente su basi ovviamente diverse, rappresentate da un regime al potere da decenni ma altresì al centro sia di forti tensioni interne di carattere religioso – che vedono autorità sciite alawite governare un Paese a larga maggioranza sunnita – che di consistenti frizioni internazionali. Con queste ultime che coinvolgono dagli onnipresenti Stati Uniti – che condannano Bashar Al Assad per il sostegno a gruppi considerati “terroristi” da Washington, come per esempio Hamas ed Hezbollah – sino a giungere a Paesi come la Turchia (interessata da un lato a rovesciare Assad e dall’altro ad evitare che possa vedere la luce un Kurdistan indipendente promosso dal PKK, a lungo spalleggiato proprio dal regime di Damasco) ed il Qatar, in gelidi rapporti con Assad principalmente a causa di interessi economici legati al commercio di gas naturale verso l’Europa. Un insieme di problemi ulteriormente amplificati da agenti esterni non manovrabili, come per esempio come il cambiamento climatico che, nel certificare il fallimento della politica economica portata avanti per anni da Assad, contribuì non poco ad alimentare il malcontento ed a creare le basi per lo scoppio del conflitto che sta insanguinando la Siria dal 2011.

Tuttavia, il parallelo tra Siria ed Iraq emerge chiaramente nella capacità delle istanze estremiste di incunearsi nella situazione di instabilità dei Paesi, cumulando “caos al caos” e sfruttandolo per porre le fondamenta per lo sviluppo di un solido progetto di resistenza armata organizzata ed estesa a livello transnazionale. Un’idea rappresentata dallo Stato Islamico e dalla volontà di creare un califfato unito esteso dalla Siria all’Iraq e viceversa, sostituendo all’instabilità permanente dell’area un regime basato sui precetti ossessivi frutto della lettura estremista delle sacre scritture islamiche.

Ecco perché, nonostante le basi diverse su cui poggiano le due crisi, il punto in comune c’è ed è rilevante, soprattutto per quanto riguarda gli effetti consequenziali. Tra cui, ovviamente, emerge su tutti proprio l’emergenza migranti, con l’enorme ondata di siriani diretta in Europa in cerca di un futuro lontano da caos, miseria e distruzione presenti nel proprio Paese.

Ma è proprio ciò che è alla base del trait d’union presente tra le due crisi che dovrebbe spingere a maneggiare con cura l’opzione dell’intervento armato quale soluzione definitiva in grado di riportare la tranquillità in Medio Oriente. Perché, se da un lato è difficile escludere con certezza che, senza la crisi irachena, anche quella siriana – o meglio, lo Stato Islamico generato dal mix tra le due crisi – non avrebbe visto la luce, dall’altro lato resta innegabile come la messa in piedi di un intervento armato debba tener conto accuramente di una complessità di fattori che tengano in debita considerazione le gestione posteriore del paese. Elementi senza i quali (Iraq 2003 docet) l’unico risultato concreto di una nuova offensiva dell’Occidente sarà quello di versare ulteriore benzina su una situazione già estremamente incandescente. Con il rischio di espanderne gli effetti a macchia d’olio, ben oltre l’area attualmente bramata dal califfato. Le premesse non sono certo buone: se l'Occidente - Stati Uniti compresi - fatica a trovare una quadra sulla gestione dell'emergenza migranti, potrà mai mettere a punto nel breve periodo una valida strategia di risoluzione della crisi?

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