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29/04/2015

 

L’Arabia Saudita cerca la strada verso la modernità

di Giovanni Zagni

 

Il re sostituisce lo storico ministro degli Esteri e nomina un nuovo successore. Intervista con Eugenio d’Auria, per cinque anni ambasciatore a Riyadh

 

L’Arabia Saudita attraversa un delicato momento di passaggio. Con una mossa a sorpresa, il re saudita Salman ha emanato oggi una serie di decreti reali che cambiano i titolari di alcuni ministeri chiave e, soprattutto, ha cambiato il principe ereditario, piazzando l’attuale ministro degli Interni Mohammed bin Nayef al posto di Muqrin bin Abdul Aziz, scelto dal suo predecessore. Le decisioni del re suggeriscono un primo rilevante scostamento dalla linea seguita da re Abdullah, morto il 23 gennaio 2015.

Nel regno saudita le questioni di successione e le nomine ai posti chiave dello stato sono i momenti più indicativi per individuare cambiamenti della linea politica, che passa sempre dall’autorità del sovrano. Mohammed bin Nayef, che è stato prima viceministro e dal 2012 ministro degli Interni, con un ruolo di primo piano nella lotta all’estremismo fondamentalista nel Paese, è uno tra i più fedeli alleati degli Stati Uniti all’interno della casa reale.

Un altro cambiamento storico è la fine dell’incarico del principe Saud al Faysal come ministro degli Esteri. Ricopriva quel ruolo dal 1975 ed era, fino a oggi, il ministro degli Esteri in carica da più tempo al mondo. Ha contribuito in modo fondamentale a gestire la delicatissima politica estera del paese negli scorsi decenni; viene sostituito da Adel al-Jubeir, che non è parte della famiglia reale – un altro particolare di rilievo – e che dal 2007 a oggi è stato ambasciatore negli Stati Uniti.

Oltre ai cambiamenti di natura politica, dal regno arrivano anche segnali più preoccupanti. Martedì 28 aprile le autorità saudite hanno annunciato che, nelle settimane precedenti, erano state arrestate in tutto il Paese 93 persone sospettate di aver rapporti con il cosiddetto Stato Islamico e che stavano progettando una serie di attentati a edifici residenziali, a sedi delle forze di sicurezza e all’ambasciata americana. La scorsa settimana, per preoccupazioni sulla sicurezza, le autorità hanno aumentato per qualche giorno i controlli intorno a centri commerciali e installazioni petrolifere.

Abbiamo parlato dei pericoli che minacciano il Paese egemone della Penisola araba, con i suoi trenta milioni di abitanti e una superficie sette volte quella dell’Italia, con Eugenio D’Auria, ambasciatore a Riyadh dal 2005 e il 2010, e autore di Veli d’Arabia. Il regno saudita tra stereotipi e realtà, uscito in questi giorni per Egea – Università Bocconi Editore.

Ambasciatore D’Auria, Lei sottolinea le contraddizioni che percorrono la società saudita. Per il futuro, Lei parla di una «vera e propria emergenza» che già si intravede a causa di diversi aspetti, sociali, politici ed economici. Se dovesse sceglierne uno, qual è la minaccia principale che affronta oggi l’Arabia Saudita?

Eliminando catastrofi politiche nel Golfo, direi che la vera sfida è dare un lavoro ai giovani. Soprattutto di dare un lavoro serio, non un finto lavoro nel settore pubblico come accade spesso oggi, ma nel settore privato produttivo o nel pubblico creativo. Quella è la sfida cruciale per l’Arabia Saudita e credo che sia nell’interesse di tutti avere un Paese stabile in una posizione così importante del Medio Oriente.

Le contraddizioni e il desiderio di porvi rimedio sono esemplificati molto bene dalla figura di re Abdullah, che è stato un riformatore in modi che non sempre si riesce ad apprezzare in Occidente. Salman, il suo successore, fa parte di un gruppo all’interno dei principi reali – i cosiddetti “sette Sudayri” – considerato, distante in qualche modo da Abdullah. Che cosa crede che ci si debba aspettare dal nuovo sovrano, in particolare sul piano delle aperture nei confronti delle donne e della modernità?

Nonostante tutti i vincoli, Abdullah era andato avanti nella sua agenda riformatrice, pur con la tradizionale cautela della casa saudita. E secondo molti, questa cautela sarà un Leitmotiv del regno di Salman. Anche di più. Lo ha dimostrato nei molti anni in cui è stato governatore di Riyadh: quando ci fu la famosa protesta delle donne che presero l’auto e guidarono per le vie della città [nel 1990], questa aveva ricevuto un’approvazione informale da parte del governatore. Ma appena Salman vide che i conservatori, e in particolare il clero, ebbero una reazione molto più violenta del previsto si tirò indietro. I mariti persero i posti di lavoro, anche se poi sono stati perdonati e molti sono riusciti a ricominciare.

In queste settimane stiamo assistendo a un deciso intervento militare dell’Arabia Saudita in Yemen per colpire la ribellione Houthi. Quali sono le caratteristiche di questo intervento?

Credo che la cosa più importante da sottolineare sia che, almeno a livello formale, l’Arabia Saudita non si è mossa da sola, ma all’interno di una coalizione in cui fanno parte a livello più o meno importante molti altri Paesi, tra cui ad esempio l’Egitto. Ma il messaggio che i sauditi stanno mandando con questa operazione è rivolto soprattutto ad altri paesi, come l’Iran: «Non interferite con i paesi arabi» o, se lo fate, rispettate il principio di non intervenire nei loro affari interni.

Quale pensa sia l’alleato più stretto dell’Arabia Saudita in questo periodo storico? Vede cambiamenti nel quadro delle alleanze? Ad esempio nel rapporto con gli Stati Uniti, che ha avuto in passato fasi travagliate.

I sauditi, in queste circostanze, dimostrano soprattutto di avere flessibilità. Negli Stati Uniti hanno una serie di rapporti sia con i democratici che con i conservatori, rapporti politici ma anche economici. Penso ad esempio ai noti interessi sauditi con la famiglia Bush o al peso di alcuni principi sauditi nel sistema finanziario americano. Apparentemente ci possono essere delle discrepanze, ma i sauditi sono sempre stati in grado di tenere vivi i rapporti con gli Usa.

E nel Medio Oriente?

Di alleati fidati nell’area, i sauditi non ne hanno quasi nessuno. Ci sono solo relazioni che si stringono di quando in quando con Paesi più o meno vicini, ad esempio con l’Iran. Oggi sentono di potersi fidare del collegamento fortissimo con la Cina basato sulle forniture di petrolio – e forniture molto intelligenti, perché i sauditi hanno aiutato i cinesi a creare riserve strategiche. Ci sono state discrepanze con la Turchia, su cui i sauditi pensavano di poter fare affidamento; ma ultimamente i rapporti si sono deteriorati anche in conseguenza della posizione nella guerra civile siriana e credo che i sauditi siano rimasti piuttosto delusi da Erdo?an.

Secondo il ministro degli Esteri Saud al Faysal risolvere il conflitto israelo-palestinese era la premessa necessaria per la pace in Medio Oriente, e anche il banco di prova della «credibilità dell’Occidente sul tema dei diritti umani presso il mondo arabo e islamico». Quanto è sentita la questione palestinese dai sauditi?

In genere i sauditi vengono accusati anche dagli altri paesi arabi di essere molto ambigui, con una duplicità di fondo. Ci sono degli analisti che vedono nel piano promosso dai Saud per la pace in Medio Oriente, più volte riproposto fino al 2007, un tentativo di sviare l’attenzione dagli attentati del 2001. Questa lettura mi sembra abbastanza miope. L’Arabia Saudita ha sempre sostenuto, anche economicamente, i movimenti di liberazione palestinese. Ci credono fortemente, come ci credono quasi tutti in Medio Oriente.

Lei sottolinea sia le aperture di una parte della società, il suo desiderio di cambiamento e la sua richiesta di riforma, sia le pressioni del clero più tradizionalista. Nel mezzo sembra esserci la famiglia reale, accusata dagli uni di essere retrograda e dispotica e dagli altri di non essere abbastanza pia, anzi di essere persino ipocrita nella propria fede sbandierata. Sono due forze che aprono una frattura nella società. Quale pensa, tra queste due, che sia la spinta più forte “dal basso”, all’interno della società? Quella verso il rinnovamento o quella verso una maggiore chiusura conservatrice?

A meno di errori da parte nostra, occidentale, e di errori di eccessive pressioni per aperture troppo rapide… L’errore che non dobbiamo fare è quello di presentarci come persone che vanno lì ad insegnare qualcosa, dall’alto. Se lei va con l’idea di insegnare qualcosa, trova chiusura totale. Ma c’è tutta la possibilità, con i social network, con i molti ricercatori che tornano dall’estero in Arabia Saudita – perché, a differenza nostra, nel 99 per cento dei casi i sauditi che studiano all’estero ritornano, sentendo l’attaccamento alle proprie tradizioni e alla propria famiglia – sarà inevitabile che ci sia un’apertura, non dico magari nel senso più strettamente democratico, ma di maggior apertura alle forme a noi più note di dialogo e democrazia.

Questa apertura non rischia di generare tensioni?

Non c’è dubbio che ci saranno tensioni, e che potranno esserci anche episodi di violenza. Bisognerà vedere se queste tensioni saranno tenute sotto controllo. Il percorso avviato da Abdullah sembrava decisamente adatto; ora bisognerà vedere se Salman riuscità a continuare in questa direzione.

Come immagina l’Arabia Saudita, e in particolare la società saudita, tra vent’anni?

Elimino la previsione di alcuni che vedono addirittura una frammentazione del Paese in quattro o cinque staterelli. L’orgoglio che si è creato in Arabia Saudita in tre secoli va al di là dei Saud, della casa regnante. Certamente sarà un’Arabia Saudita più moderna, che terrà conto anche delle tematiche ambientali e si aprirà sia alla regione del Golfo che ai paesi più distanti. I sauditi si stanno già preparando a un futuro senza petrolio, e gli enormi mezzi finanziari di cui dispongono sembrano indicare che saranno in grado di realizzarlo. Tutto sta a noi nel farci trovare pronti.

A questo proposito, parte del Suo libro ricostruisce la nostra politica in Arabia Saudita – e l’Italia non ne esce molto bene, dimostrando una gestione degli affari nel tempo sempre piuttosto improvvisata. Quale pensa che sia il motivo principale di questa scarsa lungimiranza nei nostri rapporti con il Paese?

Ci sono degli elementi di fondo che ostacolano il rapporto bilaterale tra Italia e Arabia Saudita. Primo: una rotazione accelerata dei nostri responsabili di governo; e in secondo luogo la frammentazione delle nostre iniziative. Su questo sfondo, si aggiunge una superficialità di tutti nel considerare l’Arabia Saudita uno qualsiasi dei Paesi del Golfo. Abbiamo spinto tutta una serie di iniziative negli Emirati Arabi Uniti, con l’idea che la società là sia molto più aperta: su questo però sarei molto cauto…

Alcune statistiche inoltre sono falsate, perché abbiamo dati di merci che sono dirette ai porti degli Emirati Arabi Uniti e sembrano destinate là, ma che in realtà poi finiscono in Arabia Saudita. Quando le strutture logistiche saudite sono piene, non è raro che si appoggino su quelle degli Emirati.

E questa della poca lungimiranza è una critica fatta anche alle nostre società e aziende, che hanno sempre operato di conserva. Tenga presente che per un certo periodo – fino al 2007-2008 – non abbiamo avuto un ufficio dell’Istituto per il commercio estero in Arabia Saudita: prima c’era, poi i tagli a quelle strutture l’ha fatto chiudere. L’ufficio competente per il Paese in quel periodo era in Kuwait, con tutto quello che comporta sia in termini di organizzazione che di ferimento dell’orgoglio dei sauditi.

Quale pensa che sia il principale luogo comune sbagliato a proposito dell’Arabia Saudita in Italia?

Il principale luogo comune è quello di vederli come degli operatori economici che si occupano solo di petrolio. Non è così. Se vede un elenco delle prime cento realtà imprenditoriali nel Golfo, quelle saudite occupano molti dei primi posti. Mettendo da parte i grossi centri petroliferi-chimici, ci sono grossi conglomerati – spesso di proprietà familiare – in moltissimi settori, dalle costruzioni al settore agroalimentare.

Qual è l’idea dell’Italia che si ha in Arabia Saudita?

C’è una tutta una serie di operatori che lavora con il nostro Paese e quasi tutti gli alti dirigenti sauditi hanno un’opinione precisa: da un lato sono affascinati dalla cultura e dalla creatività italiana. Dall’altro, però, sono ben coscienti delle difficoltà burocratico-amministrative. Quando vogliono fare un investimento, siamo in difficoltà a spiegare precisamente quali passi bisogna fare. In occasione delle diverse – e in realtà piuttosto rare – missioni di Confindustria, si sono sortiti pochi effetti proprio per effetto di queste difficoltà.

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