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Domenica 28 giugno 2015

 

Tunisia, primavera e terrore

di Carlo Musilli

 

La strage della settimana scorsa al resort Riu Imperial Marhaba di Sousse, in Tunisia, porta con sé due insegnamenti. Il primo riguarda la strategia dell'Isis contro l'unico Paese nordafricano in cui la Primavera araba abbia prodotto uno Stato laico e democratico, spesso citato come modello dalla comunità internazionale. Il secondo ha invece a che vedere con il lato oscuro della stessa rivoluzione tunisina, che si è rivelata incapace di dare una risposta convincente a molti aspetti della crisi socioeconomica che affligge il Paese.

 

Innanzitutto, la carneficina dell'albergo (38 persone freddate in spiaggia a colpi di kalashnikov fra cittadini inglesi, tedeschi, belgi e irlandesi, più altri 36 feriti) arriva a poco più di tre mesi dalla strage del museo del Bardo di Tunisi, in cui morirono 24 persone, di cui 21 turisti. Prima la cultura, poi le bellezze naturali.

Lo Stato islamico, che ha rivendicato entrambi gli attentati, punta dritto al cuore economico della Tunisia, il turismo. Prima dei due massacri, il settore valeva 1,5 miliardi l'anno, pari al 7% del prodotto interno lordo tunisino, una quota ancora lontanissima dal 15% dell'epoca prerivoluzionaria, ma comunque in (lenta) ripresa. Ora, invece, la curva è tornata a scendere.

 

Secondo un'indagine pubblicata la settimana scorsa, nella prima metà del 2015 il numero dei turisti in Tunisia è calato del 28% su base annua, mentre rispetto al 2010 il conto si è dimezzato in termini assoluti. Se restringiamo l'indagine alle sole presenze di italiani e francesi - fino a pochi anni fa i clienti più affezionati delle spiagge tunisine - il crollo arriva al 62%. E' facile prevedere che questi dati peggioreranno ulteriormente nei prossimi mesi, quando l'effetto della strage nel resort si farà sentire sul turismo di massa. Un impatto che produrrà conseguenze pesanti sul mondo del lavoro, aggravando una situazione già drammatica in termini di occupazione.

 

Ma la linearità del rapporto causa-effetto non aiuta a comprendere la situazione generale, anzi. Il legame fra gli attentati dell'Isis e i risultati della primavera araba tunisina è duplice e apparentemente contraddittorio. Da una parte, i terroristi puntano ad affossare il turismo per distruggere l'economia del Paese e allontanarlo dall'Europa, con l'obiettivo di erodere le fondamenta del nuovo Stato laico e, parallelamente, di allargare la base di consenso del Califfato. Dall'altra, sono proprio le molte promesse non mantenute dalla rivoluzione ad aver alimentato il consenso di cui oggi gode lo Stato Islamico.

 

Il punto è che la rivolta iniziata cinque anni fa, pur non essendo degenerata al pari di quelle in Libia o in Egitto, non è stata affatto una storia di successo. I problemi che oggi affliggono il Paese sono gli stessi che nel 2010 lo hanno portato in piazza contro Ben Ali: corruzione dilagante nelle istituzioni, tasso di disoccupazione giovanile superiore al 30%, frattura socioeconomica drammatica fra Nord e Sud per la carenza d'investimenti nel meridione. Proprio la mancata risposta a questi aspetti della crisi ha spianato la strada alla propaganda del terrorismo fondamentalista.

 

La Tunisia è il Paese che ha prodotto il maggior numero di conversioni alla causa della jihad, con migliaia di persone arruolate da volontarie prima nelle file di Al Qaeda, poi in quelle dell'Isis. Proviene dalla Tunisia la maggior parte dei miliziani inviati in Siria e in Iraq: circa 3mila individui secondo le intelligence internazionali, generalmente addestrati in Libia.

Si tratta quasi sempre di ragazzini (o comunque di uomini sotto i 30 anni), provenienti dalle realtà più povere e spediti al macello, a farsi usare come carnefici e vittime sacrificali su ogni fronte della "guerra santa". Chi ha la fortuna di sopravvivere, naturalmente, torna a casa, ma ormai non si pone nemmeno il problema di cercare un'alternativa. Continua la jihad nei musei e nei resort.   

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