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14 dic 2015

 

Dopo il nobel, resta la sfida della lotta alla radicalizzazione

di Giovanni Pagani

 

Il Quartetto per il dialogo nazionale viene premiato a Oslo, mentre a Tunisi perdura lo stato d’emergenza dopo l’attentato del 24 novembre scorso. Il paese, culla delle rivoluzioni arabe nel 2010, rimane sospeso tra il processo democratico e un’allarmante tendenza al radicalismo religioso

 

Roma, 14 dicembre 2015, Nena News –

 

L’assegnazione del Premio Nobel per la Pace al ‘quartetto per il dialogo nazionale tunisino’ è avvenuta, come da programma, giovedì a Oslo. Dove gli esponenti delle quattro organizzazioni vincitrici hanno ricevuto l’approvazione di molti leader europei e mondiali per aver saputo preferire il dialogo e il compromesso allo scontro politico e alla violenza. Intanto, la Tunisia fatica a riprendersi dallo shock dell’ultimo attentato e guarda preoccupata alle cifre del radicalismo religioso. Come osservato anche dalla mente del ‘quartetto’, Houcine Abbassi, il giorno stesso della premiazione, “la lotta al terrorismo deve rappresentare una priorità assoluta”.

Il ‘quartetto’, che ha ritirato il premio a nome di tutta la Tunisia, è autore di un’alleanza storica costituitasi nel 2013 tra le quattro principali organizzazioni della società civile: l’Unione Generale Tunisina del Lavoro (UGTT), La Confederazione dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato (UTICA), la Lega tunisina per i diritti dell’uomo (LDH) e l’Ordine nazionale degli avvocati (ONAT). Houcine Abbassi, Wided Bouchamaoui, Abdessatar Ben Moussa e Mohamed Mahfoud – rispettivamente i leader delle quattro organizzazioni – ebbero infatti il merito di mediare tra l’allora presidente Moncef Marzouki e il leader del partito islamista Ennahda, Rached Ghannouchi, in un momento in cui lo stallo politico rischiava di trascinare il paese in una spirale di violenza analoga a quella che stava investendo l’Egitto.

Ma l’assegnazione del Premio Nobel cade in un momento particolarmente critico per la Tunisia, che il 24 novembre scorso ha subito il terzo attentato terroristico in meno di un anno. Un’esplosione a bordo di un autobus della Guardia Presidenziale ha causato dodici morti nel centro della capitale, riportando il paese nell’incubo dell’estremismo islamico già vissuto il 18 marzo e il 26 giugno scorsi. In quelle date, uomini pesantemente armati avevano sferrato due attacchi terroristici nel Museo del Bardo a Tunisi e sul litorale turistico di Sousse, provocando rispettivamente ventiquattro e trentanove morti, per la maggior parte turisti stranieri.

Mentre l’eventualità di una crisi politica sembra oggi allontanata, la lotta alla radicalizzazione interna si presenta dunque come la maggiore sfida sul piano sociale, economico e della sicurezza. E nonostante la Tunisia possa essere considerata come la pagina più felice delle rivoluzioni arabe, il paese continua a offrire un esempio contraddittorio del rapporto tra progresso democratico e radicalismo religioso. I tunisini rimangono in cima alla lista dei foreign fighters che confluiscono mensilmente in Siria, Iraq e Libia – più di cinquemila già presenti sul campo e oltre ottomila bloccati nel tentativo di espatriare -, mentre gli attentati dell’ultimo anno dimostrano come questo flusso in uscita possa avere anche gravi ripercussioni all’interno dei confini nazionali.

Come osservato da molti analisti, la minaccia jihadista affonda le proprie radici in vari strati della società tunisina e non si limita al problema della sicurezza. In altre parole, la porosità – sia in uscita che in entrata – del confine con una Libia sempre più instabile e la proliferazione di cellule terroristiche lungo il confine algerino sono giustamente motivo di apprensione per Tunisi, ma sono soprattutto i parametri socio-economici a pesare sulle cifre del radicalismo islamico.

Il paese è rimasto estraneo agli scontri armati che hanno interessato Egitto, Libia, Siria, Bahrein e Yemen, ma problemi come l’ingiustizia sociale, la corruzione, la violenza delle forze dell’ordine e la distanza tra cittadini e stato rimangono ancora irrisolti a quattro anni dalla ‘Rivoluzione dei gelsomini’. I tunisini lamentano la mancanza di adeguate politiche sociali, volte sia ad integrare un crescente numero di laureati nel mondo del lavoro (140.000 all’anno per soli 60.000 posti di lavoro), sia a ridurre la marginalizzazione delle aree rurali, in alcune delle quali la disoccupazione tocca il 30 per cento. In aggiunta a ciò, una situazione economica già critica alla caduta del regime di Zine El-Abdine Ben Ali ha sofferto di un ulteriore rallentamento degli investimenti stranieri, oltre che di una forte penalizzazione del settore turistico a seguito degli attentati di Tunisi e Sousse.

Infine, sul piano politico, il compromesso tra gli islamisti di Ennahda e il presidente Marzouki – reso certamente possibile dal ‘quartetto per il dialogo nazionale nell’ottobre 2013 – è seguito alla messa fuori legge del gruppo salafita, Ansar al-Sharia, dichiarato organizzazione terroristica nel maggio dello stesso anno. Se ciò ha favorito la piena integrazione degli islamisti in un sistema di forze secolari, salvando il paese dalla violenza, il relegamento del movimento salafita all’illegalità ha creato un grande vuoto nella sfera religiosa. E mentre l’agenda politica di Ennahda diventava inevitabilmente più laica, il discorso di Ansar al-Sharia si faceva sempre più radicale e sotterraneo; affascinando tanto i ragazzi svantaggiati delle periferie di Tunisi e delle aree più povere del paese, quanto i giovani istruiti della classe media; le cui speranze erano state ampiamente disattese dopo la rivoluzione.

Secondo quanto affermato da un esponente del movimento salafita, vicino ad Ansar al-Sharia, si stima che il salafismo jihadista in Tunisia possa contare su oltre 50.000 uomini. Un numero destinato a salire se il governo non affiancherà adeguate politiche sociali alla giustificata preoccupazione per la sicurezza. È proprio in questa fascia eterogenea della popolazione che lo jihadismo di Daesh trova terreno sempre più fertile, fornendo sia uno sfondo ideologico ad azioni terroristiche come quelle di Tunisi e Sousse, sia un’alternativa concreta all’emarginazione e all’alienazione sociale: quella del jihad in Libia, Siria, e Iraq, dove sempre più giovani tunisini cercano di espatriare. Nena News

 

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