Originale: New Left Project

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4 giugno 2015

 

La fine dell’impero? La violenza e l’egemonia degli Stati Uniti in Medio Oriente

Tom Mills, di New Left Project, ha parlato con Gilbert Achcar

Traduzione di Maria Chiara Starace

 

La settimana scorsa, la rivista Foreign Policy, ha pubblicato un pezzo di Robert Kaplan che sosteneva che un brusco incremento di violenza nel mondo arabo era il risultato di un declino del ruolo di grande potere dell’America nell’organizzare e stabilizzare la regione, e anche un’eredità dell’imperialismo ottomano ed europeo. L’imperialismo forse è passato di moda, diceva il sottotitolo, ma la storia dimostra che l’unica altra opzione è il tipo di caos che vediamo oggi.

Analogamente, all’inizio del 2014 il New York Times attribuiva la violenza in Iraq, Libano e Siria alla comparsa di un Medio Oriente postamericano in cui nessuno ha il potere o la volontà di contenere gli odi settari della regione. Il potere degli Stati Uniti in Medio Oriente è declinato, e se è così, questo fatto è responsabile dell’aumento della violenza?

 

Il controllo degli Stati Uniti sul Medio Oriente si sta indebolendo?

Sì, certamente, è da anni che si va indebolendo. Il picco dell’influenza degli Stati Uniti nella regione è stato raggiunto subito dopo la prima guerra degli Stati Uniti in Iraq nel 1991. Sullo sfondo della crisi terminale dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno colto l’opportunità fornita dall’invasione del Kuwait condotta da Saddam Hussein, per organizzare un massiccio dispiegamento militare nel 1990 e hanno dato il via a una guerra su larga scala nella regione. Anche il regime siriano, che fino ad allora era stato per la maggior parte un cliente dell’Unione Sovietica, aveva preso parte alla guerra condotta dagli Stati Uniti contro l’Iraq. A proposito, questo è un episodio che coloro che credono che il regime siriano sia ‘anti-imperialista’, tendono a dimenticare – proprio come dimenticano i suoi ripetuti attacchi violenti alle forze di sinistra e palestinesi e ai campi profughi in Libano durante la guerra 1975-1990.

Il picco dell’egemonia statunitense in Medio Oriente è stato quindi raggiunto all’inizio degli anni ’90. Bush senior e la sua amministrazione che governava in quel momento, hanno tentato di consolidarlo trattandolo per quello che era, ed  è ancora considerato  una fonte importante di tensione per gli interessi degli Stati Uniti nella regione: il conflitto Israelo-Palestinese. Per  questo hanno avviato  il cosiddetto ‘processo di pace’ che è iniziato a Madrid, Spagna, nell’autunno del 1991. E’ stato poi portato avanti dall’amministrazione Clinton con gli accordi di Oslo tra l’OLP e Israele, firmati a Washington nel settembre 1993.

Tuttavia, ci sono state due importanti debolezze in questa  configurazione. Un ostacolo percepito per il completamento dell’egemonia statunitense era l’Iran. L’altro, malgrado la guerra del 1991 era l’Iraq, perché gli Stati Uniti non erano stati in una posizione di invadere e occupare l’intero paese, compresa la sua capitale, e non avevano un’alternativa immediata a Saddam Hussein. L’hanno quindi lasciato al potere, permettendogli, subito dopo al fine del loro attacco nello stesso anno 1991, di schiacciare la ribellione che si stava svolgendo nell’Iraq meridionale. Questa insurrezione è stata considerata come una ribellione sciita che perciò poteva essere sfruttata dall’Iran. In quel periodo Washington ha anche permesso a Saddam Hussein di schiacciare l’insorgenza curda nell’Iraq settentrionale. E così gli Stati Uniti hanno lasciato al potere Saddam Hussein, anche se sotto in un regime di embargo criminale che era inteso a tenerlo sotto controllo e a impedirgli di ricostruire le sue forze militari.

Durante la presidenza Clinton, la CIA ha tentato più di una volta, per mezzo di operazioni  segrete, di favorire un’alternativa a Saddam Hussein, ma ha fallito miseramente. Negli Stati Uniti è iniziata a salire la pressione  per una nuova e più completa invasione dell’Iraq, una pressione  capeggiata  dalle stesse persone che in seguito sarebbero entrate nell’amministrazione di  George W.Bush – persone coinvolte  nel Progetto per il Nuovo Secolo Americano ( Project for  the New American Century). Il resto della storia è noto: gli attacchi dell’11 settembre hanno fornito un pretesto che è stato sfruttato dall’amministrazione  Bush con bugie sui collegamenti tra Iraq e Al-Qaida e sulle armi di distruzione di massa, allo scopo di  invadere e occupare l’Iraq nel 2003. Questo è andato avanti malgrado gli avvertimenti dei consiglieri all’interno degli establishment statunitense  e britannico.

L’arroganza dell’amministrazione di George W. Bush ha provocato conseguenze negative non volute. L’invasione e l’occupazione – che erano intese come parte di uno schema per stabilire un pieno controllo senza alcun impedimento sulla regione del Golfo a causa della sua importanza strategica dovuta al petrolio – gli si è ritorta completamente cobtro. Dopo l’invasione, a partire del 2004, l’occupazione è diventata un problema importante per gli Stati Uniti. Nel 2006, il paese è esploso in una guerra civile tra sette religiose che gli Stati Uniti non sono stati in grado di controllare.

 

Il 2004, quindi, è il momento in cui l’influenza degli Stati Uniti ha cominciato a declinare?

Sì, il punto di svolta è stato il massacro di Fallujah perpetrato dalle truppe statunitensi, che hanno messo in grado Al-Qaida e altri elementi dell’insorgenza sunnita di reclutare un sacco di gente. Ha segnalato un chiaro cambiamento nelle aree sunnite arabe in Iraq contro gli Stati Uniti, che ha portato a una situazione disastrosa per Washington nel 2006. E’ stato allora che l’amministrazione Bush è stata costretta a cambiare la sua strategia sotto la pressione dell’establishment della politica estera  degli Stati Uniti, appoggiato dal Congresso. La Commissione Baker-Hamilton, una commissione congressuale bipartisan, ha ideato una nuova strategia, il cosiddetto surge  [la nuova strategia Usa basata sull’aumento delle truppe NdT]. Alla luce di questa nuova strategia , gli occupanti statunitensi  si sono comprati  le tribù arabe sunnite, rimuovendo la maggior parte della popolazione a cui  Al-Qaida e gruppi analoghi attingevano.

E sono davvero riusciti quasi a sradicare Al-Qaida dall’Iraq nel 2008, preparando il terreno per il ritiro degli Stati Uniti da quel paese, dato che la sua occupazione era diventata molto impopolare in patria.

Obama era stato eletto con una promessa di ritiro dall’Iraq, completato alla fine del 2011, anche se nessuno degli obiettivi chiave era stato raggiunto. Il principale obiettivo non era la deposizione di Saddam Hussein – questa era la parte facile; era il controllo a lungo termine sull’Iraq e il suo petrolio. E questo non è stato realizzato. Il governo di Nouri al-Maliki, instaurato nel 2006, sotto Bush, è risultato essere altrettanto, se non più subordinato, a Teheran che a Washington. E con la partenza delle  truppe nel 2011, l’equilibrio  volgeva  decisamente favore di Teheran. Riassumendo, gli Stati Uniti hanno lasciato l’Iraq sotto il controllo del suo principale nemico nella regione. E’ stato davvero un fallimento avvilente: ha screditato il potere degli Stati Uniti nell’intera regione e ha incoraggiato dovunque gli oppositori dell’egemonia statunitense. Nel 2011, perciò, l’influenza degli Stati Uniti nella regione ha raggiunto il suo punto più basso, dato che il ritiro delle truppe dall’Iraq è stato portato avanti mentre si svolgeva l’insurrezione Araba, che ha detronizzato alleati fondamentali degli Stati Uniti,  specialmente   Mubarak in Egitto. Gli Stati Uniti non si sono ancora ripresi  da questo punto di massimo declino. La loro breve avventura in Libia, ‘con la guids dalle retrovie’ si è conclusa con un altro fiasco macroscopico che ha soltanto aggravato questo indebolimento.

 

E questo ci porta alla domanda: questo declino dell’influenza statunitense ha provocato maggiore violenza nella regione, come sostengono molti commentatori?

La violenza nella regione non è nuova, ahimè. Semmai, il picco della violenza ha coinciso con il picco dell’egemonia degli Stati Uniti. Pensate alla violenza dell’attacco statunitense all’Iraq nel 1991, che ha  riportato indietro quel paese all’Età della pietra, secondo quanto dice un inviato speciale dell’ONU. Pensate al devastante embargo imposto all’Iraq in seguito e che ha causato la morte di 90.000 persone , secondo le stime dell’ONU, ogni anno per 12 anni, mentre il paese era sotto bombardamenti quasi continui. E poi pensate al cambiamento dopo l’11 settembre , all’invasione e all’occupazione dell’Iraq. L’idea che sia stato il declino dell’influenza degli Stati Uniti che ha provocato l’aumento della violenza, apparirà allora quello che è realmente: un’affermazione completamente assurda.

Il fatto è che gli Stati Uniti sono principalmente responsabili dei livelli di violenza raggiunti in Medio Oriente. Questo non vuol dire che gli Stati Uniti siano i soli responsabili, né per scagionare i regimi arabi, neanche per trascurare il fallimento dei movimenti progressisti nella regione di fornire un’alternativa. La principale responsabilità, però, è sicuramente quella degli Stati Uniti.

Prima di tutto, gli Stati Uniti hanno coltivato regimi dispotici nella regione per diversi decenni, seminando perciò i semi della violenza; e hanno coltivato il tipo più estremo di fondamentalismo tramite la loro alleanza con il regno saudita, di gran lunga lo stato più repressivo, reazionario, antidemocratico e anti-femminista della terra. Gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo importante nello sconfiggere la radicalizzazione progressista, laica, nazionalista araba che era stata guidata dall’Egitto di Nasser, incoraggiando il fondamentalismo islamico come importante arma contro di essa.

Washington è anche responsabile di altissimi livelli di violenza tramite il suo appoggio incondizionato allo Stato di Israele. Infatti una svolta decisiva dei livelli di violenza nella regione è stata l’invasione del Libano condotta da Israele nel 1982. Potremmo continuare.  In molti modi, perciò, gli Stati Uniti hanno sparso semi di violenza nella regione – una violenza alla quale hanno contribuito direttamente, con l’invasione e l’occupazione dell’Iraq nel 2003, la tortura ad Abu Ghraib e i tentativi di usare le divisioni tra sette religiose  per controllare il paese, creando così le condizioni per tutto quello a cui assistiamo oggi.

Tutto questo ha creato il contesto più diretto per la nascita dell’ISIS. La diffusione del “marchio” più reazionario del fondamentalismo islamico e il livello di violenza in Iraq durante l’occupazione anglo-statunitense: questi sono i due principali fattori alle radici dell’ISIS. C’è però anche il fatto che gli Stati Uniti si sono rifiutati di armare la convenzionale opposizione siriana dato che è emersa dopo i primi mesi dell’insurrezione quando questa ha cominciato a trasformarsi in guerra civile, in risposta all’attacco omicida del regime, pienamente appoggiato dall’Iran e dalla Russia. Gli Stati Uniti si sono rifiutati di fornire all’iniziale opposizione siriana le armi di difesa che questa richiedeva, soprattutto armi antiaeree, e ha anche proibito ai suoi alleati nella regione di fornirle tali armi. Questo ha provocato ciò che vediamo adesso: un regime estremamente spietato che aveva totalmente mano libera di usare la sua potenza aerea nel modo più devastante e crudele contro la popolazione, oltre a  una gamma completa di armi letali, comprese le armi chimiche. La cosiddetta ‘linea rossa’ di Obama quando si trattava di armi chimiche era usata soltanto per rassicurare Israele. Washington ha, però, soltanto contemplato la Siria che veniva distrutta, creandovi la netta sensazione che gli Stati Uniti e Israele sono entrambi molto contenti di vedere la Siria fatta a pezzi. La violenza del regime siriano supportato dall’Iran, è stato il più importante motivo della crescita dell’ISIS in Siria, ed è stata controbilanciata dalla politica settaria anti-sunnita del governo di Maliki in Iraq, appoggiato dall’Iran. La violenza sconvolgente genera violenza sconvolgente tramite    un aumento fino agli estremi che porta  a quello che alcuni anni fa ho chiamato “lo scontro di barbarie”, uno scontro in cui gli Stati Uniti sono i principali colpevoli e protagonisti.

 


Gilbert Achcar, professore di Studi sullo sviluppo e di Relazioni internazionali alla London’s School di Studi Orientali e Africani (SOAS), dell’Università di Londra e autore, tra gli altri libri, di:  The People Want: A Radical Exploration of the ArabUprising - La gente vuole: un’indagine radicale dell’insurrezione araba.

 


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte:http://zcomm.org/znetarticle/the-end-of-the-empire-violence-and-us-hegemony-in-the-middle-east

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