Euronews - 22/01/15 - Lo Yemen rischia di scivolare nell’anarchia, dopo le dimissioni del premier e del presidente. 
Dimissioni per ora respinte dal Parlamento, che si riunirà però sabato per una sessione d’emergenza. 
Se le dimissioni non dovessero rientrare, si aprirebbe un vuoto di potere dalle conseguenze imprevedibili. 
La Costituzione stabilisce che i poteri vengano presi dal presidente del Parlamento, che è considerato un alleato dell’ex presidente Saleh. Quest’ultimo fu deposto tre anni fa, e il successore, Abed Rabbo Mansur Hadi, aveva nominato a capo del governo un uomo del compromesso, Khaled Bahah, in seguito a un accordo con la ribellione sciita che in questi giorni è però tornata nella capitale. I ribelli hanno brevemente occupato la residenza presidenziale. 
La ribellione sciita, che si ritiene appoggiata dall’Iran, ha base soprattutto nelle regioni settentrionali, mentre nel Sud opera da tempo Al Qaida nella Penisola Arabica, la branca qaedista che ha rivendicato la strage nella redazione di Charlie Hebdo. 
Ora quattro amministrazioni regionali del sud hanno detto che non prenderanno più ordini dalla capitale.

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Giovedì, 22 Gennaio 2015

Yemen: cosa può succedere se la minaccia di golpe diventa realtà?
di Tommaso Canetta

Le notizie che arrivano dallo Yemen non hanno solo una portata locale. Se lo Stato dovesse definitivamente collassare si aprirebbero enormi praterie per i gruppi terroristi, in particolare per Al Qaeda nella Penisola Araba, la sigla che ha – ad esempio – rivendicato gli attentati di Parigi a Charlie Hebdo.

Si creerebbe un altro santuario per il fanatismo islamico, dopo il Califfato in Iraq e Siria, dove i jihadisti possono nascondersi, addestrarsi, armarsi e pianificare attentati sul suolo occidentale e non solo. Ecco perché diventa fondamentale capire cosa sta succedendo in queste ultime ore nello Stato sud-occidentale della Penisola Araba.

Dopo aver occupato il palazzo presidenziale, sparato sulla residenza del presidente, aver occupato la televisione pubblica e la più grande base militare del Paese, i ribelli sciiti in Yemen, gli Houthi, hanno fermato la lama del golpe a pochi centimetri dalla gola dello Stato, presieduto dal sunnita Abd-Rabbu Mansour Hadi. La minaccia però rimane. I ribelli sostengono di essere disposti a prendere qualunque misura necessaria per ottenere il riconoscimento nella nuova costituzione dei loro diritti. Questo era stato promesso nell’accordo di pace siglato lo scorso settembre, dopo che gli Houthi avevano di fatto occupato la capitale Sanaa, e niente meno di questo verrà accettato. 

La ribellione degli Houthi va avanti da oltre un decennio oramai. Dopo aver preso il controllo del nord dello Yemen, dove abita una popolazione a maggioranza sciita, sono riusciti negli ultimi anni a conquistare altre aree e diversi quartieri della capitale. Nel corso delle primavere arabe, 2011, hanno ottenuto la cacciata del presidente Saleh – sciita anch’esso ma ben visto da sauditi e americani, e quindi a loro inviso – e si aspettavano un ampio riconoscimento della loro autonomia (e quindi una consistente fetta di potere) da parte del governo di unità nazionale presieduto da Hadi. Ma qualcosa nel percorso immaginato si è inceppato e le frizioni crescenti dell’ultimo periodo rischiano di scatenare un incendio che non lascerebbe speranze di vita alla fragile autorità statale yemenita.

“Quello che sta accadendo va inserito nel contesto del Grande Gioco in corso tra Arabia Saudita e Iran nell’intero Medio Oriente”, spiega Leandro Di Natala, analista dell’European Strategic Intelligence and Security Center di Bruxelles. “Come in Iraq, in Siria, in Libano, in Bahrein e via dicendo, anche in Yemen gli sciiti e i sunniti vengono armati gli uni contro gli altri per le logiche di potere delle due potenze regionali. Gli Houthi sono sicuramente sostenuti dall’Iran: nel gennaio 2013 ad esempio era stata sequestrata una nave secondo Sanaa riconducibile a Teheran, la Jihan 1, ricolma di armi (anche pesanti, come missili terra-aria) destinate ai ribelli sciiti. Allo stesso modo i Sauditi cercano di sostenere il governo, che gli è amico, e gli attori locali sunniti ostili agli Houthi”. 

Considerata la complessità della situazione yemenita è comunque difficile suddividere il campo in solo due schieramenti, aggiunge Di Natala. La terza parte – la più pericolosa per l’Occidente – è costituita dai gruppi terroristi riconducibili ad Al Qaeda ed al jihadismo, che qui sono particolarmente forti e radicati. In Yemen risiede ad esempio Nasser bin Ali al-Ansi, ideologo qaedista che pochi giorni fa ha nuovamente incitato i suoi seguaci a fare attentati individuali in Europa. Anche Al Asiri, lo specialista di esplosivi più ricercato e pericoloso del terrorismo islamico, pare si nasconda in Yemen. Ma oltre ai terroristi di Al Qaeda esistono numerose altre sette fanatiche, gruppi sunniti secessionisti (Al Hirak), e gli scontri spesso rispondono a logiche tribali oltre che religiose o politiche.

“Sarebbe sbagliato pensare che quello che succede in Yemen, o in generale negli altri Stati periferici rispetto alle due potenze, iraniana e saudita, sia sempre frutto di una spinta da parte di queste ultime. Talvolta è il contrario: sono i Paesi piccoli e i loro gruppi che riescono a coinvolgere Teheran e Riad nel sostenerli politicamente e nell’armarli”, afferma Simone Pasquazzi, docente di relazioni internazionali e analista digeopolitica per enti pubblici e privati. “Nel caso dello Yemen, poi, ovviamente le due potenze sono molto coinvolte. Gli Iraniani hanno la prospettiva di piantare una loro bandierina sul confine sud del nemico saudita, provocandone un accerchiamento e controllando di fatto anche l’altro canale marittimo che dà a Riad lo sbocco sull’Oceano, oltre allo stretto di Hormuz, già sotto tutela iraniana. Riad per contro cerca in tutti i modi di evitare questo accerchiamento e una presenza ostile sciita nel versante sud della penisola Araba”. E forse è stata proprio la contrarietà dei sauditi a concedere troppo potere agli Houthi che potrebbe aver portato al ristagno della situazione prima ed al suo precipitare attuale.

“Per evitare che la situazione precipiti – con gravi ripercussioni per la sicurezza anche dei Paesi occidentali – servirebbe che l’Arabia Saudita riconoscesse il ruolo degli Houthi in Yemen, e quindi dell’Iran nel Paese. A quel punto potrebbero unire gli sforzi contro la minaccia qaedista e dell’Isil, che sono entrambi loro comuni nemici", prosegue Di Natala. "Purtroppo questo è lo scenario più improbabile. Considerato lo scontro in corso tra Teheran e Riad in Siria, Iraq, Libano e in generale in tutta l’area, è assai più probabile che continuino a combattersi, indebolendo così le strutture dello Stato a tutto vantaggio delle organizzazioni terroristiche e qaediste. Se si dovesse arrivare a un golpe vero e proprio da parte degli Houthi – conclude Di Natala – nell’anarchia conseguente si rafforzerebbero i gruppi legati alla jihad islamica”.

Se dovesse perdere il proprio interlocutore “ufficiale” in Yemen, cioè il governo, l’Arabia Saudita potrebbe decidere di destinare i propri aiuti economici e militari anche ad altri soggetti. Secondo HashemAhelbarra, per anni corrispondente di Al Jazeera da Sanaa, “l’ex presidente Saleh ha ancora la fedeltà di molti reparti della Guardia Repubblicana e la sua influenza sarebbe ancora forte sulle tribù sciite del nord, di cui pure gli Houthi fanno parte”. Ma non solo. Armi e soldi potrebbero finire anche in mani peggiori. “E’ già successo in passato”, conferma Pasquazzi. “I sauditi potrebbero armare gruppi fanatici sunniti in ottica anti-sciita ma senza averne un controllo sufficiente. Non dico per forza in Yemen, dove Al Qaeda può essere una spina nel fianco anche per i Saud, che quindi potrebbero essere più prudenti. Ma potrebbero ad esempio attuare la loro retaliationcontro obiettivi sciiti in Siria, in Libano o in Iraq. A quel punto le loro risorse potrebbero finire nelle mani sbagliate. E l’Occidente avrebbe ancor più di che preoccuparsi”.

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