Le Monde diplomatique

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18 aprile 2015

 

Farla finita con il terrorismo. Per davvero

di Alain Gresh

Traduzione di Saverio Leopardi

 

Gli attentanti di Tunisi e Sanaa confermano che i Paesi musulmani sono i più colpiti dalle azioni dei jihadisti contro le popolazioni civili. Se da una parte la “guerra al terrorismo” è capace di mobilitare l’opinione pubblica, dall’altra contribuisce ad aggravare alcuni dei problemi politici soggiacenti, specialmente nel Vicino Oriente.

 

È stata una battaglia epica, coperta ora per ora dai media di tutto il mondo. L’organizzazione dello Stato islamico (Is), che aveva già conquistato Mosul nel giugno del 2014, proseguiva la sua avanzata folgorante contemporaneamente verso Baghdad e verso la frontiera turca.

I combattimenti sono infuriati per diversi mesi. I miliziani Curdi locali, appoggiati dall’aviazione americana, hanno ricevuto delle armi e il sostegno di circa centocinquanta soldati inviati dal Governo Regionale del Kurdistan iracheno. Seguiti con passione dalle televisioni occidentali, gli scontri sono terminati all’inizio del 2015, con la ritirata dell’Is.

Ma chi sono questi eroici resistenti che hanno tagliato una delle teste dell’Idra terrorista? Definiti in maniera generica come “Curdi”, la maggior parte di loro appartiene al Partito dell’Unione Democratica (PYD), braccio siriano del Partito dei lavoratori curdo (PKK). Il PKK tuttavia figura da più di un decennio sulla lista delle organizzazioni terroriste stilata da Stati Uniti e Unione Europea. Così, a Parigi si può essere condannati per “apologia del terrorismo” se si esprime un’opinione favorevole al PKK, ma a Kobane, i loro militanti meritano la nostra ammirazione. Chi potrebbe d’altronde stupirsi in un’epoca in cui Washington e Teheran negoziano un accordo storico sul nucleare e in cui il direttore dei Servizi Nazionali Americani comunica al Senato un rapporto in cui Iran e Hezbollah non vengono più definite come delle entità terroriste che minacciano gli interessi degli Stati Uniti?

Fu un’estate particolarmente agitata. A Haifa un uomo fece esplodere una bomba in un mercato il 6 luglio: 23 persone vennero uccise e 75 ferite, donne e bambini perlopiù. Il 15, un attentato a Gerusalemme uccise 10 persone e ne ferì 29. Dieci giorni più tardi, una bomba esplose, sempre a Haifa, causando la morte di 39 persone. Le vittime erano tutti civili e arabi. Nella Palestina del 1938 questi atti furono rivendicati dall’Irgun, braccio armato dell’ala “revisionista” del movimento sionista, che diede a Israele due primi ministri: Menachem Begin e Itzhak Shamir.

Un concetto fluido

Resistenti? Combattenti per la libertà? Delinquenti? Barbari? Sappiamo che l’etichetta di «terrorista» viene sempre applicata all’Altro, mai ai «nostri combattenti». La storia ci ha anche insegnato che i terroristi di ieri possono diventare i dirigenti di domani. Questo dovrebbe forse stupirci? Il terrorismo può essere definito – e gli esempi del PKK e dei gruppi sionisti armati illustrano le ambiguità del concetto – come una forma di azione, non come un’ideologia. Nulla collega i gruppi di estrema destra italiani degli anni 1970, le Tigri Tamil e l’Irish Republican Army (IRA), per non parlare dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e del Congresso Nazionale Africano (ANC), questi ultimi due descritti come “terroristi” da Ronald Reagan, Margaret Thatcher e, ovviamente, da Benyamin Netanyahu, il cui Paese collaborava strettamente con il Sud Africa dell’apartheid.

Nella migliore delle ipotesi, il terrorismo può essere considerato come un metodo militare. E, come si dice spesso, è l’arma dei deboli. Figura brillante della rivoluzione algerina, arrestato dall’esercito francese nel 1957, Larbi Ben Mhidi, capo della regione autonoma di Algeri, fu interrogato sul perché il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) sistemasse delle bombe in delle ceste nei caffè o in altri luoghi pubblici. «Dateci i vostri aerei e noi vi daremo le nostre ceste» ribatté ai suoi aguzzini, che lo avrebbero assassinato freddamente qualche giorno più tardi. La sproporzione di mezzi tra guerriglieri e un esercito regolare comporta una sproporzione nel numero delle vittime. Se Hamas e i suoi alleati devono essere considerati «terroristi» per aver ucciso tre civili durante la guerra di Gaza dell’estate 2014, come bisognerebbe qualificare lo Stato d’Israele, che di civili ne ha massacrati, secondo le stime più basse – quelle fornite proprio dall’esercito israeliano – tra gli ottocento e i mille, tra cui diverse centinaia di bambini?

Al di là del suo carattere fluido e indefinito, l’utilizzo del concetto di terrorismo tende a depoliticizzare le analisi e allo stesso tempo a rendere impossibile qualsiasi comprensione delle questioni sollevate. Noi lottiamo contro «l’impero del Male» affermava il presidente George W. Bush davanti al congresso americano il 24 settembre 2001, aggiungendo: «Odiano ciò che vedono in questa assemblea, un governo democraticamente eletto. I loro dirigenti si autonominano. Odiano le nostre libertà: la nostra libertà religiosa, la nostra libertà di parola, la nostra libertà di votare e riunirci, di essere in disaccordo gli uni con gli altri». Per affrontare il terrorismo, non è dunque necessario modificare le politiche americane di guerra nella regione, di mettere fine al calvario dei palestinesi; la sola soluzione è l’eliminazione fisica del «barbaro». Se i fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly, autori degli attentati contro Charlie Hebdo e l’Hyper Cacher di Porte de Vincennes, sono mossi fondamentalmente dal loro odio verso la libertà di espressione, come hanno proclamato i principali responsabili politici francesi, è inutile interrogarsi sulle conseguenze delle politiche portate avanti in Libia, Mali e Sahel. Il giorno in cui l’Assemblea Nazionale rendeva omaggio alle vittime degli attentati di gennaio, votava contemporaneamente il rinnovo delle operazioni militari francesi in Iraq.

Non è forse il tempo di stilare il bilancio di questa «guerra contro il terrorismo» che dura sin dal 2001, e dei suoi obiettivi dichiarati? Secondo il Global Terrorism Database dell’università di Maryland, al Qaida e i suoi affiliati hanno commesso circa duecento attentati all’anno tra il 2007 e il 2010. Questo numero è aumentato del 300% nel 2013, con seicento azioni. E nessuno dubita che le cifre del 2014 batteranno tutti i record con la creazione del califfato da parte di Abu Bakr al Baghdadi. Che ne è poi del numero dei terroristi? Secondo le stime occidentali, 20.000 combattenti stranieri si sono uniti all’Is e alle organizzazioni estremiste in Iraq e Siria, tra cui 3.400 europei. «Nick Rasmussen, capo del Centro nazionale di contro-terrorismo americano, ha affermato che il flusso di combattenti stranieri che si recano in Siria ha superato di gran lunga quello di coloro che sono partiti per il jihad in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Yemen o Somalia in qualsiasi momento nel corso degli ultimi venti anni».

Questo bilancio della «guerra al terrorismo» sarebbe solamente parziale se non tenesse in conto i disastri geopolitici e umani. Dopo il 2001, gli Stati Uniti, talvolta con l’aiuto dei proprio alleati, hanno condotto delle guerre in Afghanistan, in Iraq, in Libia e in maniera indiretta in Pakistan, in Yemen e in Somalia. Bilancio: lo Stato libico è scomparso, lo Stato iracheno sprofonda nel confessionalismo e la guerra civile, il potere afghano vacilla, i talebani non sono mai stati tanto potenti in Pakistan. Condoleezza Rice, ex-segretario di Stato americano, evocava un «caos costruttivo» nel 2005 per giustificare la politica dell’amministrazione Bush nella regione, annunciando un avvenire trionfante per la democrazia. Dieci anni più tardi, il caos si è esteso a tutto quello che gli Stati Uniti chiamano il «Grande Medio Oriente» dal Pakistan al Sahel. E le popolazioni locali sono state le prime vittime di questa utopia della quale fanno fatica a comprendere l’aspetto costruttivo.

Decine di migliaia di civili sono stati vittima di «bombardamenti mirati», droni, commando speciali, arresti arbitrari, torture sotto l’egida di consiglieri della Central Intelligence Agency (CIA). Niente è stato risparmiato, né matrimoni, né cerimonie di nascita, né funerali, ridotti in cenere dai colpi americani «mirati». Il giornalista Tom Engelhardt ha registrato otto matrimoni bombardati in Afghanistan, Iraq e Yemen tra il 2001 e il 2013. Quando vengono evocate in Occidente, cosa rara, queste vittime, contrariamente a quelle fatte dal «terrorismo», non hanno mai un viso, un’identità; esse sono anonime, «collaterali». Tuttavia, ognuna ha una famiglia, dei fratelli e delle sorelle, dei genitori. Bisognerebbe stupirsi che il loro ricordo alimenti un odio crescente verso gli Stati Uniti e l’Occidente? È possibile immaginare che l’ex-presidente Bush venga portato davanti alla Corte Penale Internazionale per aver invaso e distrutto l’Iraq? Questi crimini mai perseguiti alimentano i discorsi più estremisti nella regione.

Definendo il nemico come una «minaccia esistenziale», riducendolo a un «islamo-fascismo» come ha fatto il primo ministro francese Manuel Valls, evocando una terza guerra mondiale contro un nuovo totalitarismo erede di fascismo e comunismo, l’Occidente accorda ad al Qaida e all’Is una visibilità, una notorietà, una statura comparabile a quella dell’URSS o della Germania nazista. Si accresce artificialmente il loro prestigio e l’attrazione che esercitano su coloro che desiderano resistere all’ordine imposto dagli eserciti stranieri.

Alcuni dirigenti americani hanno a volte degli sprazzi di lucidità. Nell’ottobre 2014 il segretario di stato John Kerry, durante una celebrazione per la «festa del sacrificio» con i musulmani americani, dichiarava, evocando i suoi viaggi nella regione e le sue discussioni a proposito dell’Is: «Tutti i dirigenti hanno menzionato spontaneamente la necessità di provare a giungere alla pace tra Israele e Palestinesi, poiché [l’assenza di pace] favorisce il reclutamento [dell’Is], la collera e le manifestazioni di strada alle quali questi dirigenti devono rispondere. Bisogna comprendere questa connessine con l’umiliazione e la perdita di dignità».

Ci sarebbe quindi un rapporto tra «terrorismo» e Palestina? Tra la distruzione dell’Iraq e la crescita dell’Is? Tra gli assassinii «mirati» e l’odio contro l’Occidente? Tra l’attentato del Bardo a Tunisi, lo smantellamento della Libia e la miseria delle regioni abbandonate dalla Tunisia che si spera, senza crederci troppo, possa ricevere infine un aiuto economico sostanziale che non sia condizionato alle abituali ricette del Fondo Monetario Internazionale (FMI), creatrici di ingiustizie e rivolte?

Modificare le politiche occidentali

Ex-membro della CIA, eccellente specialista dell’Islam, Graham Fuller ha appena pubblicato un libro, A World Without Islam («Un mondo senza Islam»), del quale lui stesso sintetizza la conclusione principale: «Se anche non ci fosse una religione chiamata Islam o un profeta chiamato Muhammad, lo stato delle relazioni tra l’Occidente e il Vicino-Oriente sarebbe più o meno lo stesso. Questo potrebbe sembrare contro-intuitivo, ma mette in luce un punto essenziale: esistono una decina di buone ragioni all’infuori dell’Islam e della religione per le quali le relazioni tra Occidente e Vicino-Oriente sono cattive […]: le crociate (un’avventura economica, sociale e geopolitica occidentale), l’imperialismo, il colonialismo, il controllo occidentale delle risorse energetiche del Vicino-Oriente, la creazione di dittature filo-occidentali, gli interventi politici e militari occidentali senza fine, le frontiere ridisegnate, la creazione da parte dell’Occidente dello Stato di Israele, le invasioni e le guerre americane, le politiche americane parziali e persistenti a riguardo della questione palestinese, ecc. Niente di tutto questo ha dei rapporti con l’Islam. È vero che le reazioni della regione sono formulate sempre più in termini religiosi e culturali, ovvero musulmani o islamici. Questo non deve sorprendere. In ogni grande scontro, si cerca di difendere la propria causa nei termini morali più elevati. È quello che hanno fatto sia le crociate cristiane che il comunismo con la sua “lotta per il proletariato internazionale”».

Anche se i discorsi di odio propagati da alcuni predicatori musulmani radicali sono inquietanti, la riforma dell’Islam è responsabilità dei credenti. Al contrario, cambiare le politiche occidentali che da decenni alimentano il caos e l’odio, è un compito che spetta a noi. Sarebbe il caso quindi di diffidare dei consigli di tutti quegli esperti della «guerra al terrorismo». Il più ascoltato a Washington da trent’anni a questa parte non è altri che Benyamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, il cui libro Terrorism: How the West Can Win pretende di spiegare come farla finita con il terrorismo; potrebbe servire da breviario per qualunque nuova crociata. Le sue ricette hanno alimentato lo «scontro di civiltà» e fatto sprofondare la regione in un caos dal quale sarà molto difficile uscire.