da: Nena News

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Sabato 01 Agosto 2015

 

Dopo Alì, uccisi due 17enni palestinesi: la violenza di Israele è strutturale

di Chiara Cruciati

 

Dopo il brutale omicidio del piccolo Ali, le forze militari israeliane hanno ucciso due ragazzi a Gaza e in Cisgiordania. Il mondo finge di non vedere che la violenza nei Territori non è civile ne estemporanea, ma radicata e di Stato.

 

Altre due vittime del fuoco israeliano: stavolta non quello appiccato da un gruppo di coloni, ma quello aperto da soldati dell’esercito israeliano. Perché sta qua la gravità del conflitto ancora in corso a cui il mondo guarda solo in casi speciali: nei Territori Occupati la violenza è strutturale.

A poche ore dalla notizia che ha sconvolto la comunità internazionale, la Palestina è scesa in piazza per protestare. Un bambino di soli 18 mesi, Ali Dawabsha, era morto carbonizzato, bruciato vivo, ieri mattina a Kufr Douma, villaggio vicino Nablus, dopo che dei coloni avevano lanciato nella sua casa delle molotov, riducendola in cenere. Il resto della famiglia è in ospedale, in condizioni gravi: la madre ha ustioni gravi sul 90% del corpo, il padre sull’80%.

I palestinesi, a Gerusalemme, Nablus, Ramallah, Hebron, hanno protestato perché – a differenza della comunità internazionale che ieri chiedeva giustizia e puntava il dito sulle mele marce dei movimenti estremisti israealiani – sanno che non si tratta di un episodio estemporaneo, ma di quotidianità, su cui le autorità politiche e militari israeliani chiudono un occhio. Perchè la violenza dei coloni è uno degli strumenti indirettamenti usati per espandere le colonie e allontanare la popolazione palestinese ancora residente in Area C, il 60% della Cisgiordania sotto il totale controllo militare e civile israeliano.

Il premier Netanyahu ieri ha parlato di “atto di terrorismo” e promesso di trovare i colpevoli della morte di Ali. Poche ore dopo, però, a morire sotto i colpi di arma da fuoco dell’esercito israeliano era il 17enne Laith al-Khaldi. Laith, residente nel campo profughi di Jalazon, è morto stamattina all’alba per le ferite riportate ieri al checkpoint di Atara, vicino Ramallah, dove ieri sera sono scoppiati scontri tra soldati e manifestanti. È stato centrato al petto da una pallottola ed è morto poco dopo in ospedale.

Secondo l’esercito la colpa è stata dei manifestanti: “Un sospetto palestinese ha lanciato una molotov ai soldai che hanno risposto al pericolo immediato”.

Poche ore prima, venerdì mattina, un altro 17enne è stato ucciso. Stavolta a Gaza, stavolta lungo la zona cuscinetto unilateralmente dichiarata da Israele intorno la Striscia. Si tratta di Mohammad al-Masri, colpito nei pressi di Beit Lahiya. Secondo testimoni Mohammad e un altro giovane stavano camminando lungo la rete di divisione quando sono stati raggiunti dal fuoco israeliano, senza preavviso. L’esercito dice di aver sparato in aria e poi in direzione dei due. Che in ogni caso non rappresentavano un pericolo: nella buffer zone di Gaza, a est della Striscia, si trovano i terreni agricoli. Per questo i palestinesi ci vanno: per tentare di lavorare la terra.

Violenza strutturale, che non è solo civile e casuale, ma è di Stato e radicata. E’ strumento politico. Ieri ogni manifestazione è stata dispersa dall’esercito israeliano con la forza, con proiettili veri e di gomma, con gas lacrimogeni e granate stordenti. Molti palestinesi sono rimasti feriti (uno gravemente nel campo profughi di Shuafat), chi al petto, chi alla testa, chi alla schiena. Scontri in tutta Gerusalemme, da al-Issawiyah a Beit Hanina, da Silwan ad Al-Tur.

 

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01 agosto 2015

 

Altri 2 palestinesi uccisi da soldati israeliani

di Marina Zenobio

 

La polizia israeliana spara sulla protesta per la morte del piccolo Ali. Uccisi altri 2 giovani palestinesi. Il Governo di Tel Aviv condizionato dai coloni

 

Ieri la Palestina ha sepolto Ali Dawabsha, il bambino di 18 mesi bruciato vivo nel rogo della sua casa appiccato da coloni israeliani nel villaggio di Duma, in provincia di Nablus (Cisgiordania). E da ieri sta montando la protesta dei palestinesi, da Ramallah a Gaza a Gerusalemme est, e altro fuoco, questa volta quello delle armi dell’esercito israeliano, hanno ucciso altri due giovani palestinesi.

Ieri, Mohamed Hamid al Marsi (17 anni) è stato ucciso a Gaza, vicino Beit Lahya, nei pressi della frontiera tra Israele e la Striscia. Secondo le forze militari israeliane il giovane si era avvicinato troppo ai reticolati di demarcazione, ignorando ripetuti avvertimenti. Il giovane sarebbe morto sul colpo, mentre un suo amico, rimasto ferito, è in ospedale.

Stanotte a cadere sotto i colpi di arma da fuoco dell’esercito di Tel Aviv è stato il 18enne Laith al-Khaldi, residente nel campo profughi di Jalazon. Laith, centrato in pieno petto da una pallottola israeliana, è morto all’alba di oggi per le ferite riportate ieri al checkpoint di Atara, vicino Ramallah, dove erano scoppiati scontri tra soldati e manifestanti. L’esercito si è giustificato dicendo di aver risposto al lancio di molotov da parte dei manifestanti.

Con queste uccisioni sale a 20 il numero dei civili palestinesi che hanno perso la vita per mano delle forze israeliane dall’inizio dell’anno. Sono dati confermati dall’Onu e riporta anche che l’esercito di Israele e la sua polizia di frontiera ha anche causato il ferimento di almeno 1043 civili palestinesi.

Al contrario della postura presa dalla comunità internazionale, secondo cui Israele deve fare giustizia e punire “le mele marce degli estremisti israeliani colpevoli di attaccare i civili palestinesi”, con le proteste in corso a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme est, i palestinesi protestano perché rifiutano la logica per cui si stratta di “episodi estemporanei” ad opera di “mele marce” sulle quali, comunque, il governo e i militari israeliani chiudono un occhio. La violenza dei coloni non è altro lo strumento usato indirettamente per espandere le colonie e allontanare la popolazione palestinese, in particolare quella ancora che risiede nell’Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania illegalmente occupata e sotto controllo militare e civile di Tel Aviv.

E’ indubbio ormai che il problema dei coloni sono la causa principale per cui il processo di pace non può proseguire. Il governo israeliano attuale è fortemente condizionato dai coloni, molti ministri vengono dalle colonie, tra cui Naftali Bennett, ex ministro dell’educazione, attuale ministro dell’economia e ministro dei servizi religiosi, nonché leader del partito “Patria ebraica”che pochi giorni fa dichiarava: “La missione di questo governo è costruire”. Spingono per nuovi insediamenti, per aumentare il numero degli abitanti degli insediamenti già esistenti. E la polizia, lo Shin Bet, che in genere è abbastanza esperto nel rintracciare i colpevoli degli attentati da parte palestinese, non è riuscita e non vuole arrivare ai terroristi ebrei.

E lo dimostra il fatto che ieri, come riporta anche Nena News, ogni manifestazione palestinese contro il terrorismo ebraico dei coloni è stata dispersa dall’esercito israeliano con la forza, con proiettili veri e di gomma, con gas lacrimogeni e granate stordenti. Oltre ai morti, molti palestinesi sono rimasti feriti (uno gravemente nel campo profughi di Shuafat), chi al petto, chi alla testa, chi alla schiena.

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