http://nena-news.it/

10 marzo 2015

 

La lotta nonviolenta di israeliani e palestinesi: “Israele è sotto occupazione mentale”

di Eleonora Pochi

 

L’israeliano Guy Butavia e il palestinese Mahmouz Zwahre raccontano la loro esperienza di resistenza non violenta

 

Roma, 10 marzo 2015, Nena News

 

Nell’ambito del ciclo di incontri “Everyday Resistance” organizzato da Assopace Palestina in diverse città italiane, è stato possibile ascoltare le testimonianze di due attivisti per i diritti umani, Guy Butavia, israeliano e membro dell’organizzazione Ta’ayush, e Mahmoud Zwahre dei Popular Struggle Committee. Entrambi sono impegnati a tempo pieno in azioni che hanno come obiettivo la fine dell’occupazione militare israeliana dei territori palestinesi. Secondo Butavia e Zwahre sono due gli elementi indispensabili per chi decide di intraprendere la lotta non violenta: la costanza e la consapevolezza.

“Mio padre è sopravvissuto all’Olocausto – spiega Guy – è’ nato in Polonia e ha preso parte alla Resistenza. Mi ha raccontato molte storie a riguardo e, tra queste, non sono mancati episodi molto amari. Ad esempio è stato tradito ed è stato consegnato ai nazisti. E’ stato una vittima, questo mi è molto chiaro, ma proprio per questo motivo sono sempre riuscito ad avere ben chiaro in mente il significato di nazismo e discriminazione”.Una volta arrivato a Gerusalemme, il padre di Guy ha cominciato a lavorare come costruttore: “a differenza della gran parte degli israeliani, ho avuto l’opportunità di parlare e conoscere molti palestinesi fin da quando ero bambino. Con mio padre lavoravano parecchi di loro e così ho avuto l’opportunità di visitare molti villaggi [palestinesi]. I media israeliani cercano di farci crescere con l’idea che siamo sotto assedio, che ‘loro’ vogliono cacciarci via ed ucciderci, ma se solo provassimo a conviverci sarebbe molto più semplice capire quanto la realtà sia molto diversa”.

Butavia e gli attivisti di Ta’ayush filmano le violazioni dei diritti umani subite dal popolo palestinese ed accompagnano contadini ed allevatori – di frequente aggrediti da coloni ed esercito israeliano- alle loro terre. Spesso vengono aggrediti dai militari di Tel Aviv e dagli abitanti degli insediamenti israeliani in Cisgiordania persino quando tentano di opporsi pacificamente a demolizioni o a distruzioni di campi.

Per il governo di Tel Aviv gli attivisti israeliani sono molto scomodi: “cercano di fermarci, di bloccare le nostre attività. Ci sono checkpoint allestiti proprio per noi che sosteniamo il popolo palestinese. Ci fermano, ci interrogano, molto spesso ci arrestano e ci processano” racconta Guy. Nonostante le difficoltà, l’attivista israeliano promette che la forza per continuare questa lotta non cesserà mai: “la realtà in cui sono cresciuto mi ha insegnato molto bene che noi, che siamo stati vittime in passato, abbiamo reso e stiamo rendendo i palestinesi delle vittime. Per me è stato molto difficile prenderne coscienza e osservare questo passaggio di odio. Non lo accettavo, così come non lo accetto oggi, ma almeno ho trovato un modo per non stare a guardare. Ho cominciato quando ho incontrato un attivista palestinese e con lui ho preso parte alle prime azioni sul territorio. Il buon senso direbbe che nessuno è l’occupante. Ma la realtà è che i palestinesi hanno grandissime difficoltà a raggiungere le loro terre e a muoversi”.

Mahmoud Zwahre, il militante palestinese, ha invece voluto sottolineare il ruolo che l’Europa dovrebbe avere per porre fine all’occupazione militare israeliana e alle sistematiche violazioni dei diritti umani. “L’Europa ha sottoscritto convenzioni internazionali secondo cui gli insediamenti israeliani sono illegali. Fin quando si parla di democrazia, ma non si intraprendono azioni concrete per fermare tutto questo, non ci sarà un impegno reale per ottemperare gli impegni legali ed etici sanciti dagli accordi internazionali. Il 75% degli israeliani ha la doppia nazionalità – aggiunge M. Zwahre – ad esempio. Chi è responsabile di gravi violazioni di diritti umani potrebbe essere condannato dalla legislazione europea. E’ l’Europa ad aver provocato l’Olocausto, ma è la Palestina che ne sta pagando il prezzo. Come il padre di Guy anche mio nonno è sopravvissuto ad una tragedia umana, la Nakba. 750 mila palestinesi sono stati cacciati dalla loro terra per dare spazio ad oltre 5 mila coloni israeliani”.

L’attivista di Betlemme parla poi di discriminazione: “in Palestina – afferma – ci sono tutti i tipi possibili di discriminazione. Vuoi vedere l’Apartheid? Allora guarda come vivono gli arabi che risiedono in Israele. Se vuoi capire che cosa è un genocidio, vai nella Striscia di Gaza. E se vuoi comprendere cos’è un progetto coloniale invece, fatti un giro in Cisgiordania”. Cresciuto in una realtà molto dura, Mahmoud ha iniziato ad occuparsi della difesa dei diritti del proprio popolo all’età di 14 anni. Durante la seconda Intifada l’esercito israeliano gli ha ucciso familiari ed amici. Essere testimone della feroce violenza di Israele lo ha portato ad avvicinarsi alla nonviolenza: “sono le idee e la fede che possono veramente cambiare le cose”.

Gli chiedo quale sia la forza della nonviolenza: “sono profondamente convinto, come affermava Ghandi, che se contro la violenza del tuo nemico usi la nonviolenza, egli rimarrà spiazzato perché è un’arma che non si aspetta. Non si può usare la violenza contro la violenza. Pertanto sono convinto che questa sia la strada da percorrere per la completa libertà del nostro popolo. Abbiamo scoperto con la resistenza pacifica, inoltre, che il mondo ritiene che Israele sia un leone, che se ti avvicini ti mangerà. Ma questo leone in realtà è finto. E’ necessario che la lotta si compatti, non solo in Palestina, ma in tutto il mondo. Non accetteremo mai di essere occupati e privati della nostra libertà. In realtà, però, quelli ad essere sotto occupazione sono gli israeliani. La loro è un’occupazione mentale. Vivono sempre nel timore, reclamano sempre più sicurezza. Ma perché hanno paura? Hanno forse rubato qualcosa?” conclude il militante palestinese.

Guy e Mahmoud raccontano di come l’occupazione israeliana comprometta a lungo termine una crescita sana dei minori in Palestina. “I bambini sono terrorizzati – racconta il primo – in Cisgiordania tremano al solo pensiero che qualcuno possa demolire la loro casa da un giorno all’altro”. Alcune università palestinesi hanno condotto uno studio sul campo insieme ai Comitati Popolari che sono impegnati in un programma di recupero psicologico dei minori. “Da una recente analisi – fa notare M. Zwahre – abbiamo scoperto che i nei villaggi in cui i Popular Committee sono attivi con pratiche di lotta nonviolenta, la resistenza dei bambini è più alta. Un importante motivo per continuare così il nostro attivismo”. Nena News

 

top