Haaretz

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08 ott 2015

 

Palestinesi lottano per la sopravvivenza, Israele per l’occupazione

di Amira Hass

traduzione di Carlo Tagliacozzo

 

Il fatto che ci si accorga che c’è una guerra solamente quando gli ebrei sono assassinati non cancella la realtà che i palestinesi vengano continuamente uccisi.

 

Sì, questa è una guerra e il primo ministro Benjamin Netanyahu, grazie al mandato popolare, ha ordinato la sua escalation. Non ha ascoltato i messaggi di conciliazione e di accettazione del presidente palestinese Mahmoud Abbas nei periodi di calma, perché dovrebbe ascoltarli ora? Netanyahu sta intensificando la guerra principalmente a Gerusalemme Est, con un’orgia di punizioni collettive.

Così, sottolineando l’assenza di una leadership palestinese a Gerusalemme Est e la debolezza del governo di Ramallah, che sta provando a fermare il movimento nel resto della Cisgiordania, egli mette ulteriormente in evidenza il successo israeliano nel separare Gerusalemme dalla maggior parte della popolazione palestinese.

La guerra non è cominciata lo scorso giovedì, non è iniziata con la le vittime ebree e non finirà quando nessun ebreo verrà assassinato. I palestinesi stanno lottando per la loro sopravvivenza, nel vero significato della parola. Noi israeliani ebrei stiamo lottando per i nostri privilegi in quanto nazione di padroni, nel senso peggiore del termine.

Il fatto che ci si accorga che c’è una guerra solamente quando gli ebrei sono assassinati non cancella la realtà che i palestinesi vengono continuamente uccisi e che di continuo facciamo qualunque cosa in nostro potere per rendergli la vita insostenibile. La maggior parte del tempo è una guerra unilaterale, condotta da noi, per costringerli a dire “si” al padrone, grazie mille per farci sopravvivere nelle nostre riserve. Quando si turba qualcosa della guerra unilaterale e degli ebrei sono assassinati, allora la nostra attenzione si attiva.

I giovani palestinesi non assassinano ebrei in quanto ebrei, ma perché noi siamo i loro occupanti, i loro torturatori, siamo quelli che li imprigionano, i ladri della loro terra e della loro acqua, siamo quelli che li mandano in esilio, i demolitori delle loro case, quelli che gli negano un futuro. I giovani palestinesi, disperati e vendicativi, desiderano morire e procurano alle loro famiglie grandi sofferenze perché il nemico che hanno di fronte dimostra ogni giorno che la sua malvagità non ha limiti.

Anche il linguaggio è malvagio. Gli ebrei sono assassinati, i palestinesi sono uccisi e muoiono. È così? Il problema non comincia quando non ci è permesso di scrivere che un soldato o un poliziotto di frontiera ha assassinato dei palestinesi, a distanza ravvicinata, quando la sua vita non era in pericolo, oppure da un posto di controllo lontano o da un aereo o da un drone. Ma ha a che fare con il problema. La nostra capacità di comprensione è schiava di un linguaggio preventivamente censurato che distorce la realtà. Nel nostro linguaggio gli ebrei sono assassinati perché sono ebrei e i palestinesi trovano la loro morte e sofferenza perché presumibilmente se la sono cercata.

La nostra visione del mondo è modellata da un coerente tradimento dei media israeliani del loro dovere di informazione, o della loro mancanza di capacità tecnica ed emotiva di raccogliere tutti i dettagli della guerra totale che stiamo conducendo per conservare la nostra superiorità sul territorio tra il fiume [Giordano] e il mare.

Persino questo giornale non ha le risorse economiche per impiegare 10 giornalisti e riempire 20 pagine di notizie su tutti gli attacchi sia in tempi di escalation che in quelli di calma, dalle sparatorie alle costruzioni di strade che distruggono un villaggio, dalla legalizzazione di un avamposto dei coloni a un milione di altri attacchi. Ogni giorno. Gli eventi presi a caso che cerchiamo di raccontare sono delle gocce nell’oceano e non hanno alcun impatto sulla comprensione della situazione per una grande maggioranza di israeliani.

L’obiettivo di questa guerra unilaterale è di costringere i palestinesi a rinunciare a tutte le loro aspirazioni nazionali riguardo alla loro terra natia. Netanyahu vuole l’escalation perché finora l’esperienza ha dimostrato che i periodi di calma dopo quelli sanguinosi non ci riportano al punto di partenza, ma piuttosto a un livello più basso nel sistema politico palestinese e aggiungono privilegi agli ebrei in una Israele più grande.

I privilegi sono il fattore principale che stravolgono la nostra comprensione della nostra realtà, che ci rendono ciechi. A causa loro non riusciamo a capire che persino con una debole leadership “presente- assente”, il popolo palestinese – disperso nelle sue riserve indiane – non si darà per vinto e continuerà a trovare la forza necessaria per resistere al nostro malvagio dominio.

 

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