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25 febbraio 2015

 

La nuova offensiva di Assad e la protesta dei bambini

di Sara Trusciglio

 

Nelle ultime tre settimane, a seguito dell’attacco da parte di un gruppo d’opposizione filo-islamico (Ǧaysh Al-Islam), che ha lanciato razzi nel cuore della capitale, il regime ha scatenato una violenta offensiva a colpi di artiglieria e bombardamenti aerei in varie zone della Siria controllate dall’opposizione: Aleppo, la più grande città del paese, contesa da praticamente tutte le parti in campo per la sua posizione strategica; Al-Zabadani, situata vicino al confine libanese, controllata dal gruppo di opposizione Ahrar As-Sham e da Ǧabhat An-Nuṣra; Duma, cittadina a nord di Damasco, che ha pagato il prezzo più elevato in termini di perdite tra i civili (si contano, infatti, almeno 180 morti).

In tali operazioni militari, particolarmente significativo risulta l’uso delle cosiddette “barrel-bombs” (barili-bomba), (uso che è stato prontamente negato da Assad durante una recente intervista alla BBC), specialmente alla luce dell’incontro avvenuto tra il presidente e Staffan De Mistura, inviato speciale delle Nazioni Unite. La proposta diplomatica di De Mistura prevede una sospensione temporanea delle ostilità della durata di sei settimane, circoscritta al territorio di Aleppo. Ciò che ha suscitato indignazione e sgomento tra i gruppi di opposizione, comportando il rifiuto della proposta di tregua, è la collocazione di Assad negli eventuali scenari post-bellici futuri. Infatti, De Mistura ha chiaramente definito il presidente siriano “parte della soluzione” al conflitto: cosa inaccettabile, se lo si considera la causa principale del conflitto stesso.

Si assiste dunque ad una sorta di riabilitazione di Assad: sono lontani i tempi in cui si paventava la sua caduta. Non c’è barile-bomba che tenga: oggi, in questa visione un po’ manichea del Medio Oriente, il nemico numero uno è lo Stato Islamico. Eppure, se riteniamo che bombardamenti sui civili, epidemie, mancanza d’acqua e di medicinali, esodi di massa verso gli Stati confinanti (e tralasciamo la conta dei morti) siano elementi sufficientemente destabilizzanti per la Siria e per il Medio Oriente in generale, si dovrebbe tacciare Assad di efferatezza almeno quanto Al Baghdadi. Quali altri elementi, in maniera persino più autorevole di questi crudi dati di realtà, orientano la percezione dell’opinione pubblica occidentale? La guerra in Siria, infatti, si combatte anche su un altro fronte: quello della comunicazione. In tal senso, lo Stato Islamico ha messo in atto qualcosa di paragonabile a una strategia di marketing. Una produzione video accurata dal punto di vista tecnico, uno sfoggio ossessivo di brutalità che smuove coscienze e viscere, una scelta di tratti distintivi (tuniche arancioni, appelli di giornalisti rapiti, esecuzioni) che sono entrati prepotentemente nell’immaginario collettivo degli spettatori: questi sono gli ingredienti del tipico video dell’ISIS, che diventa subito “virale”.

Sin dall’inizio delle proteste, nel 2011, i siriani si sono adoperati in maniera quasi ossessiva per documentare  e diffondere, con mezzi di fortuna, immagini incerte e traballanti di scontri, bombardamenti e massacri, al fine di smuovere l’opinione pubblica e ricevere sostegno dalla comunità internazionale: tali tentativi sono stati accolti con una sostanziale indifferenza. Non sorprende, dunque, che proprio a Duma, a seguito dell’ultima strage di civili, un gruppo di attivisti abbia tentato di cavalcare polemicamente l’onda mediatica del califfato, inscenando una protesta che ha visto come protagonisti un gruppo di bambini vestiti di arancione e chiusi in gabbia, con tanto di torcia che avvampa vicino a loro come se fossero in procinto di essere bruciati vivi. Tale è il paradosso: gli abitanti di Duma sono stati barbaramente colpiti dal regime ma, per catalizzare l’attenzione sul massacro realmente subito, sono costretti a metterne in scena uno fittizio.