Les Crises,
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Gennaio 6, 2015

Siria: perché l’occidente s’è ingannato
di Frederic Pichon
Traduzione di Alessandro Lattanzio

A metà marzo 2011 la brutale repressione dei servizi di sicurezza siriani faceva scendere in piazza una parte della popolazione di Dara, cittadina sunnita nella Siria meridionale, non lontano dal confine con la Giordania. Molti adolescenti accusati di aver scritto graffiti anti-regime vennero arrestati e torturati. Alcuni sarebbero morti. A seconda delle versioni numero di vittime e giorno della manifestazione differiscono [1]. Da quella data l’opposizione al governo siriano cresce, non solo a Dara ma in altre città siriane, come Lataqia e Banyas. Il 27 marzo 2011, Bashar al-Assad è disposto a fare concessioni: abroga lo Stato di emergenza del 1963, rilascia quasi 250 prigionieri politici, per lo più islamisti. Ma il movimento si diffonde in tutta la Siria, senza che grandi città come Aleppo e Damasco ne siano interessate. Anche prima dello scoppio della rivolta, armi provenivano dalle organizzazioni islamiste nei Paesi vicini. Nella primavera del 2011, tra le vittime di Banyas vi furono poliziotti e soldati. L’opposizione, e i media occidentali, spiegavano che si trattava in realtà di soldati uccisi per essersi rifiutati di combattere. Joshua Landis, uno dei maggiori specialisti statunitensi sulla Siria, condannerà sulla base di una mera ipotesi. Ad Hama, poliziotti sono scuoiati e gettati nel fiume. A Jisr al-Shughur quasi un centinaio di soldati vi perderà la vita, attaccati da gruppi armati. La replica è spietata. L’aeronautica rimane a terra, su richiesta di Mosca, nei primi giorni, ma il piano è usare i carri armati. Il contesto della “primavera araba” è favorevole, avendo già abbattuto il regime di Ben Ali in Tunisia nel 2010. Il faraone Hosni Mubaraq fu rovesciato a febbraio 2011, e gli eserciti della NATO stavano per colpire il leader libico Muammar Gheddafi, anche lui minacciato. Quindi sembrava inevitabile che il governo siriano cadesse a sua volta nel 2011. Quasi quattro anni dopo, non solo Bashar al-Assad è ancora al suo posto, ma addirittura sembra che l’occidente e in particolare gli Stati Uniti siano rassegnati a che resti al potere in Siria. Col tempo una certezza è apparsa: pur con tutti i suoi difetti, lo Stato siriano è un paradiso di stabilità, rispetto delle minoranze, secolarismo e contribuisce in modo efficace alla lotta al terrorismo, incarnato dallo Stato islamico. È un partner delle Nazioni Unite e la stragrande maggioranza del mondo ha ancora rapporti diplomatici con Damasco.

Tre errori sono stati commessi in Siria

Sottovalutare la resistenza dell’esercito e del regime,
Credere che l’intervento internazionale potesse avvenire nonostante i russi
Pensare che l’emozione sarebbe bastata ad arruolare l’opinione pubblica mentre poco si diceva dei “ribelli” che sosteniamo.
La Francia l’ha fatto nonostante generazioni di bravi orientalisti e diplomatici ben versati sulla regione. Sembrerebbe che la diplomazia francese dal 2007 sia più preoccupata di porre al potere umanitaristi o affaristi appartenenti alla generazione di disinibiti nuovi servi dello Stato. Ambasciatori esperti, arabisti, sperimentati agli usi della vecchia scuola del Medio Oriente e in particolare della Siria, furono messi da parte. Un ambasciatore in Siria è costretto a farsi spiegare, prima di assumere l’incarico, la differenza tra gli alawiti di Siria e la dinastia alawita del Marocco; ha dell’incredibile [2]. Alcuni esperti della Siria che tendevano per anni le grandi antenne tra Beirut e Monte Qasiun, non hanno voluto vedere ciò che si tramava. Dopo aver fatto finta di osservare la Siria, non volevano vedere che gli slogan corrispondenti alle nostre categorie occidentali e raccontare un romanzo accettabile alle nostre coscienze ansiose di universalismo democratico, piuttosto che la realtà. Nessuno è riuscito a persuadere il Quai d’Orsay a sostenere gli oppositori tollerati dal regime, garantendone una perfetta legittimità e passati per le prove delle prigioni e delle forze dell’ordine siriane. Si sapeva bene che Francia e Unione europea erano in contatto con questi oppositori che poi avrebbero formato il Comitato nazionale di coordinamento per il cambiamento democratico. Dovremmo dimenticare che furono fermamente contrari all’intervento occidentale e che ciò infastidiva i calcoli dei capi francesi più atlantisti rispetto al passato? Ora la sfida è presa dai peggiori estremisti, obbedendo all’agenda in gran parte dettata dalle potenze del Golfo. Ce ne vuole per spiegare la radicalizzazione del conflitto come dovuta al solo regime siriano. Naturalmente quest’ultimo, più a suo agio nella battaglia che nel negoziato, istintivamente decise la militarizzazione del conflitto. Il calcolo occidentale era la rapida caduta di Bashar al-Assad e a tale solo scopo non esitò ad esternalizzare il conflitto a certi Paesi del Golfo, Qatar e Arabia Saudita in testa. I calcoli della diplomazia francese, in particolare scegliendo subito gli estremisti, si dimostrarono catastrofici per i siriani come per i gruppi di opposizione che la Francia supportava. Con tali premesse, le cose sono andate certamente molto male. Eppure furono questi gli indirizzi della politica estera francese nella primavera del 2011, nella crisi siriana. E’ chiaro che nulla di ciò che fu detto si è verificato, ma furono isolati coloro che remavano contro corrente, spesso bollati con l’etichetta famigerata di “filo-Assad”. In Siria, la Francia aveva notevoli leve diplomatiche, una buona conoscenza della regione e un’antica tradizione di risoluzione dei conflitti. A ciò vanno aggiunte buona reputazione e capacità di interagire con tutti. Tutto ciò è andato in frantumi. In occasione della crisi siriana, la Francia ha mostrato improvvisazione e una smisurata diplomazia da cowboy, al punto che ci si chiede se il neoconservatorismo dell’Hudson Institute non sia emulato sulle rive della Senna. Ci vorrà del tempo per riprendersi da tale corso. La Francia fatica a trovare una voce udibile nel mondo arabo, e anche più in generale in un mondo in cui l'”occidente” non ha più lo stesso senso o le stesse risorse. Nel nuovo ordine internazionale, le relazioni tra le nazioni hanno massiccio bisogno di equilibrio, misura, concessioni e sovranità. Cercando di soddisfare gli alleati del Golfo su tutta la linea, la Francia ha attirato i sospetti di Paesi emergenti come Russia e Cina, ma anche Brasile e Sudafrica, Paesi che cercano riconoscimento e supportano la propria sovranità. Escludendo Russia e Iran dai negoziati regionali, la Francia ha dato conferma a coloro che vedono del neocolonialismo nelle iniziative dell’occidente. Paradossalmente, mentre gli Stati Uniti vedono la necessità di “ridurre la loro impronta”, le gesta francesi hanno aggravato il divario tra le chiacchiere universalistiche sempre meno serie e la realtà molto prosaica che regola i rapporti tra forze globali. È come se Parigi avesse voluto competere con Londra nel ruolo di fedele servitore di Washington.
Tali incongruenze non sono dovute ai nostri servizi militari o d’intelligence, ma sono dovute soprattutto a coloro che formano la nostra classe politica, per cui i problemi strategici sono secondari, o che ragionano secondo la caducità dell’elettoralismo. La gestione dell’emozione, la manipolazione di posture sovrane e i voli marziali, sono il perizoma di una politica indigente, guidata persone a cui in fondo tali questioni non interessano. Tatticamente, i capi politici occidentali si costrinsero a negare il carattere fondamentalista della “rivoluzione” in Siria. Si doveva lasciare al solo regime siriano l’utilizzo del termine infame di “terrorista”. La Francia sostiene gli “oppositori” finanziati dai Paesi del Golfo, Arabia Saudita e Qatar per primi. Paesi che hanno oculatamente comprato una parte delle élite francesi, evitando qualsiasi dibattito sulla questione. Tale alleanza snaturata, caduca, è l’origine di uno dei peggiori errori strategici degli ultimi anni. La Siria rimarrà per molti anni un serbatoio jihadista, a poche ore dal cuore dell’Europa. Abbiamo lasciato che alle nostre porte si creasse una zona grigia da cui arriverà la violenza di domani. Una violenza indiscriminata che spazzerà le nostre fragili società e che ha già distrutto parte di un Paese e del suo Popolo.

Note

[1] Vedasi l’analisi di Barbara Loyer, direttrice dell’Istituto Francese di Geopolitica in Erodote, n° 146-147, 3° trimestre – 4 2012, pp. 97-99.


[2] Si deve riconoscere che l’ambasciatore francese a Damasco, Eric Chevallier, avvisò i suoi superiori su certe resilienze del sistema nelle prime settimane e non fu seguito da un ministro che proclamò al mondo che la sua caduta era questione di giorni…

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