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Luglio 14, 2015

 

Abu Shujaa, il “padre dei coraggiosi” che strappa le schiave yazide allo Stato islamico e le riporta a casa

di Leone Grotti

 

Il commerciante siriano avrebbe salvato 200 tra donne e bambini. «Non sono più coraggioso degli altri. Questa enorme catastrofe mi ha spinto a fare qualcosa»

 

Lo chiamano Abu Shujaa, il “padre dei coraggiosi”, e l’epiteto non è affatto un’esagerazione. Quest’uomo iracheno di religione yazida da un anno fa la spola tra Iraq, Siria e Turchia per liberare le donne e i bambini ridotti in schiavitù dallo Stato islamico e portarli al sicuro in Kurdistan.

 

PADRE DEI CORAGGIOSI. Abu Shujaa racconta così al Guardian una delle sue operazioni, durante la quale ha liberato sette donne dalla casa di due australiani dell’Isis a Raqqa, capitale siriana del Califfato islamico: «Abbiamo sorvegliato la casa per alcuni giorni. Quando una sera gli australiani sono usciti di casa, siamo intervenuti. Due uomini sono entrati, mentre altri tre facevano la guardia fuori, monitorando la situazione. Abbiamo portato le donne in una casa sicura nella provincia di Raqqa nottetempo, il giorno dopo le abbiamo trasferite a Gaziantep, in Turchia».

 

200 YAZIDI LIBERATI. Con operazioni simili, Abu Shujaa dice di aver già liberato 200 yazidi dalle mani dei tagliagole. La cifra è impossibile da verificare, di sicuro i rapiti dall’Isis sono molti di più. Nell’agosto del 2014, i terroristi islamici hanno conquistato la città irachena di Sinjar, uccidendo centinaia o migliaia di yazidi, a seconda delle fonti, e rapendo più di mille tra donne e bambini. L’Isis considera gli yazidi eretici e li chiama adoratori del diavolo. Questa religione di origine zoroastriana adora l’”angelo caduto” Taus Malek, il più importante dei sette angeli a cui Dio avrebbe concesso il governo del mondo terreno dopo il peccato di Adamo, ma tale angelo ribelle, a differenza di Lucifero, si sarebbe pentito della sua ribellione dopo un lunghissimo esilio punitivo (secondo alcuni durato seimila anni).

 

VENDUTE COME SCHIAVE. Le donne yazide hanno subìto ogni tipo di orrore: pestaggi, stupri, torture. Sono state costrette a convertirsi all’islam, vendute in piazza al mercato come schiave e marchiate a fuoco. Tante sono state trasferite in Siria, a Raqqa, e distribuite ai mujaheddin come bottino di guerra. I bambini, invece, sono stati indottrinati e addestrati per combattere la guerra santa.

 

«DOVEVO FARE QUALCOSA». «La catastrofe degli yazidi era così enorme che mi ha spinto a fare qualcosa», racconta Abu Shujaa, originario di Sinjar e commerciante di mestiere con molti legami in Siria. «C’era bisogno di qualcuno che cercasse di tirarle fuori da questa situazione. Io non sono né migliore né più coraggioso degli altri. Ma conoscevo molta gente in Siria anche prima dell’arrivo dell’Isis, avevo una buona rete di rapporti».

 

«NESSUNO CI PROTEGGE». Ma per fare quello che fa, di coraggio ne serve eccome. Le sue squadre sono composte da un minimo di tre a un massimo di sette persone e fanno affidamento sull’aiuto di molti residenti in diverse città controllate dall’Isis. «Dobbiamo fare tutto con la massima segretezza», continua. «Nessuno nel mondo si interessa di noi, nessuno ci protegge. Dobbiamo far scappare la nostra gente con le nostre forze».

 

SCOPERTI E DECAPITATI. A volte queste forze non bastano. A febbraio due suoi uomini sono stati catturati a Raqqa e decapitati in piazza. Lo stesso Abu Shujaa (foto a destra), durante la liberazione delle sette donne, uscendo da solo dalla città, è incappato in un check-point dell’Isis. «Quella volta mi è andata bene. Sono stato fortunato, non mi hanno fatto domande». Il suo nome, però, ormai lo conoscono tutti. E non sono pochi i messaggi minatori che gli arrivano attraverso i social network: «Tu, corrotto, nemico di Dio, sarai un perdente in questo mondo e nell’Aldilà. Il tuo destino è l’inferno», gli ha scritto un jihadista tunisino.

 

LA STORIA DI SAMIRA. Abu Shujaa non si cura delle minacce ricevute e la riconoscenza delle famiglie delle donne e dei bambini liberati lo ripaga. Samira, 21 anni, è una di queste. Rapita l’anno scorso insieme al figlio di due anni, ad agosto, mentre si trovava incinta, ha dovuto partorire in cattività. È stata liberata dal “padre dei coraggiosi”, mentre suo marito e altri 12 familiari sono tuttora dispersi. Dopo aver passato due mesi in Iraq, è stata trasferita a Raqqa insieme ad altre 30 giovani con i due figli e data in premio a un jihadista saudita. È stata costretta a convertirsi all’islam e pregava regolarmente per far piacere al suo padrone.

 

LA TRATTATIVA. «Un giorno di aprile, il saudita mi ha detto: “Ti restituirò alla tua famiglia se mi pagheranno 70 milioni di dinari (54 mila euro)”», racconta Samira al Guardian. «L’ho messo in contatto con mio padre e si sono accordati per 20 milioni (15 mila euro)». Dopo aver ricevuto come anticipo la prima metà della somma, però, il membro dello Stato islamico ha cambiato idea, tenendosi sia i soldi che Samira.

 

IL PIANO. È a questo punto che il padre, Hassan, ha contatto Abu Shujaa. «Lui mi ha detto: “Se ti chiamano ancora, fammi solo parlare con lei per due minuti e la tiro fuori di lì”». Così è successo. Hassan ristabilì i contatti con i terroristi, che gli mandavano spesso sul cellulare minacce e immagini di decapitazioni e crocifissioni. Fece parlare la figlia con il “padre dei coraggiosi” per due minuti e in quel lasso di tempo riuscirono a stilare un piano.

 

«MI HANNO SALVATO». A giugno, mentre il saudita era fuori di casa, Samira è uscita insieme ai due figli vestendo l’abaya nero di ordinanza, la tunica lunga fino ai piedi obbligatoria per tutte le donne sotto il Califfato. Raggiunto il luogo prestabilito, un uomo di Abu Shujaa l’ha fatta entrare in un’auto e sono scappati fuori dalla città di Raqqa. «Ho sempre pensato che non avrei mai più rivisto la mia famiglia», conclude Samira. «Invece Abu Shujaa e i suoi uomini mi hanno salvata».

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