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17 settembre 2015

 

Gli Stati Uniti di fronte al bivio

di Francesco Manta

 

Mosca gioca a carte scoperte, il supporto americano all’Isis durante il conflitto in Iraq non è più un segreto, e Lavrov fa sapere a Washington di esserne al corrente. È interesse del Cremlino bloccare l’avanzata del Califfato per proteggere i suoi confini al Nord del Caucaso e per farlo scardina la politica estera americana affrontando le intimidazioni di Washington. L’azione bifronte della diplomazia e dei servizi segreti pone Obama di fronte al fatidico bivio: intraprendere un conflitto armato in territorio neutro o sconfessare la propria strategia mediorientale in uno “scontro in famiglia” contro una sua creatura.

 

La Siria è oramai divenuto il centro nevralgico del dibattito diplomatico e militare del momento, non perché nel resto del mondo non stia succedendo nulla di – molto crudamente – “interessante”, ci si potrebbe dilungare in informare il lettore su tutta la violenza che dilania il mondo. La Siria è, semplicemente, il banco di prova delle alleanze internazionali. Vogliamo esagerare, paragonandola ad una Bosnia del 1914? Il paragone non è poi così forzato. Certo, non c’è nessun principe ereditario assassinato, e nessun fanatico estremista che tra la folla spara un colpo di pistola; bensì uno Stato, il più potente del mondo, che tenta di spodestare un legittimo governo che, con tutte le sue forze tenta di fronteggiare una costola mediorientale di questo nemico.

Al di là di questi romantici revival storici (che, per carità, riprovano come la storia delle relazioni internazionali sia ciclicamente modellizzata), sul rovente terreno di scontro siriano si pesano le forze militari e diplomatiche in campo. Il duello NATO – Russia si consuma nelle dichiarazioni dei rispettivi Ministri degli Esteri e sulla, più occulta, azione dei servizi segreti militari. C’è da dire che il capo della diplomazia russa, Sergey Lavrov, la cui intelligenza e abilità non possono essere contestate, si è lasciato andare in commenti ben poco misurati circa l’azione americana nell’area mediorientale che, in un più ampio piano di rovesciamento dei regimi – considerati minacciosi – in Iraq, Iran e Siria, ha portato avanti un piano di alimentazione delle frange terroriste che oggi notoriamente minacciano la sicurezza mondiale. Come spesso le autorità di Teheran avevano fatto presente, sin dai tempi del conflitto in Iraq, vi erano dei velivoli di Washington che trasportavano risorse appannaggio del nascente Stato Islamico, confermando l’ipotesi à la page, ma assolutamente fondata, che alla Casa Bianca i nemici non sono i ribelli estremisti. Oggi la musica non sembra essere cambiata: il placet americano sull’avvio dei bombardamenti da parte delle forze turche, autorizzate a colpire “anche” obiettivi civili e militari vicini al presidente Assad, altro non sono che manovre – neanche tanto – sottotraccia per cercare di scardinare il regime del presidente siriano in carica dal 2000. Questa volta, però, in un contesto eurasiatico piuttosto facinoroso, l’intervento di Mosca ha messo i bastoni tra le ruote agli Yankee.

Inutile arrampicarsi su scivolosi specchi di interessi umanitari, il braccio di ferro per la stabilità/instabilità della Siria riveste un’importanza strategica in chiave sicurezza internazionale, più nello specifico del bacino caucasico-mediorientale. Secondo la Lubyanka, infatti, l’avanzata dell’Isis sarebbe finalizzata alla destabilizzazione ultima dell’area a Nord del Caucaso che, tra Cecenia, Cherkessk e Daghestan risulta a maggioranza musulmana. Tale ipotesi è tutt’altro che assurda e complottista, come molti potrebbero asserire. Proprio da queste zone, notoriamente turbolente, centinaia di fondamentalisti islamici si sono arruolati nell’Isis – Abu Omar Shishani, ceceno, pare essere ai vertici dello Stato Islamico -, costituendo un serio pericolo per la formazione di nuove cellule terroriste in tali regioni, consentendo l’avanzata delle frange islamiche al soldo americano in territorio russo. Le preoccupazioni del Cremlino, dunque, si estendono su due fronti che, in verità, tracciano un’unica linea del fuoco in Asia centrale. L’importanza conferita alla situazione da parte di Mosca è tangibile, anche l’intervento che il presidente Putin terrà alle Nazioni Unite il 28 settembre, a chiusura del mese di presidenza russa del Consiglio di Sicurezza e in occasione della 70esima sessione dell’Assemblea Generale, varrà un ottimo pretesto per sollevare la questione agli occhi della comunità internazionale. Si prevede, inoltre, che Obama incontrerà lo “Zar” in tale circostanza, durante la quale discuteranno senz’altro di Siria ed Ucraina, ma soprattutto di Siria, abbandonando la questione del Donbass nell’oblio della desolazione democratica americana.

I nervi son tirati, perché gli Stati Uniti si trovano, per la prima volta dopo anni, a dover giustificare con imbarazzo una strategia ambigua, se non palesemente disastrosa. Non è chiaro quale sia la posizione che Washington voglia assumere in tale frangente, per risolvere l’impasse in cui la politica estera americana si trova. Conciliare gli interessi e le pressioni degli stakeholder politici nell’affaire siriano non è questione di poco conto. Certo è che la direzione da percorrere non è ben tracciata e ci si augura che non sia quella dello scontro a viso aperto in tipico stile Guerra Fredda, questa volta portato oltre il livello critico. Se gli alleati dell’America dovessero volersi tirare indietro dall’eventualità di un conflitto, sarà comunque dura per Obama e co. dover sconfessare un progetto ed eliminare una propria creatura.

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