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ott 13th, 2015

 

La Siria e noi

di Dario Rivolta

Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni internazionali.

 

“I sentimenti umanitari sarebbero semplicemente impossibili senza il brusco fatto del potere militare americano. Ciò perché, senza quel potere, gli interventi morali non potrebbero nemmeno essere contemplati… E, una volta ancora, non va mai dimenticato che tale potere fu accumulato in modo amorale, come un bisogno di sopravvivenza contro competitori geopolitici. Il potere può essere usato moralmente in sforzi umanitari, ma quello stesso potere può essere acquisito solamente in modo amorale. Di conseguenza, continuare con azioni umanitarie richiede la continuata acquisizione amorale per il mantenimento del potere americano”. Così scrive Robert D. Kaplan, uno dei maggiori teorici neoconservatori statunitensi, su Stratfor.com.

Come naturale conseguenza di quest’affermazione, potremmo aggiungere che nella politica internazionale è evidente che nessuno possa lanciare la prima pietra in nome dei grandi valori di cui l’occidente è portatore (la libertà individuale, la democrazia, il rispetto delle minoranze ecc.) ma anche che, senza perdere di vista la difesa di questi valori, è indispensabile guardare contemporaneamente, con obiettività e lungimiranza, a quale sia la realtà contingente e quali i nostri veri interessi immediati e di lungo termine.

L’attuale guerra civile in Siria è una di quelle situazioni che dovremmo sottoporre a tale esame.

Che Bashar al-Assad sia un dittatore e il suo non corrisponda a quello che oggi giudichiamo il miglior sistema di governo è un dato di fatto. Tuttavia, per valutare correttamente la dimensione della sua tanto propagandata (dagli americani) ferocia, dovremmo confrontarlo al comportamento del regime saudita, nostro alleato, e, forse, cominceremmo ad avere qualche dubbio. Anche il fatto che la minoranza alawuita guidasse prepotentemente il Paese infischiandosene della maggioranza della popolazione sembra un dato acquisito. Eppure, già su questo bisognerebbe domandarsi come mai le minoranze cristiane e druse che pure abitavano la Siria, potessero tranquillamente coesistere con il regime e non possano invece farlo oggi, con altrettanta libertà in Paesi di recente (supposta) acquisizione democratica come l’Iraq. Senza contare che, a quanto sembra, anche numerose famiglie sunnite partecipavano a ruoli di potere nel regime di Damasco, apparentemente senza alcuna discriminazione. Per quanto riguarda i curdi, che pur non erano riconosciuti come cittadini al pari degli altri, occorrerebbe verificare se la loro condizione e la loro libertà di espressione etnica fossero migliori nella Siria degli al-Assad o nella “democratica” Turchia.

Ma, dicevamo, ciò che conta è anche verificare quale sia, oggi, il nostro interesse, di italiani e di europei, nella guerra civile in atto in quel Paese mediorientale. Immaginiamo allora di riuscire a eliminare l’attuale regime di Damasco e vediamo cosa potrebbe accadere dopo.

Guardando alla realtà senza pregiudizi e considerando le forze in campo, ciò che possiamo intravedere è soltanto una continuazione della guerra civile in cui bande armate, nutrite per anni dai sauditi e dalle altre monarchie del Golfo, continuerebbero a combattere per il potere contro altre bande armate, spalleggiate da turchi e qatarini, e altre ancora sostenute dagli iraniani. Per i curdi locali il futuro resterebbe incerto poiché il loro desiderio di autonomia sarebbe negato con tutti i mezzi sia da Ankara sia da Teheran. In entrambe le capitali, infatti, l’idea di una seconda regione autonoma curda dopo quella irachena è percepita (comprensibilmente) come foriera di un incoraggiamento alla rinascita di un nazionalismo curdo anche nell’est della Turchia e nel nord dell’Iran, mettendo così a repentaglio le rispettive integrità territoriali.

Eliminato al-Assad, dunque, la Siria continuerebbe per un numero imprecisato di anni a rimanere una zona molto instabile ove ogni progetto di rappacificazione diplomatica e d’investimenti di aiuto provenienti dall’estero sarebbero inutili o impossibili.

In questo quadro, che ricorda in parte quanto successo in Iraq dopo la caduta di Saddam, non abbiamo nemmeno considerato un’altra ipotesi che sarebbe ancora peggiore: un sedicente Stato Islamico che continui a sopravvivere e, approfittando della situazione, seguiti a espandersi e attirare combattenti dall’estero.

Recentemente anche gli americani si sono accorti degli errori commessi nel fornire armi e addestramento a gruppi presunti “moderati” che, appena lasciati i campi di formazione, si sono uniti ai combattenti jihadisti o hanno ceduto loro le armi ricevute per condivisione ideologica o per denaro. Lo stesso sottosegretario Usa alla Difesa ha dovuto ammettere di aver sbagliato e ha dichiarato che gli Usa continueranno a “equipaggiare e istruire” solamente un “selezionato gruppo di leader e di unità di opposizione controllati”, verificando il “successo di forze di terra locali, motivate e capaci”. In altre parole, Washington si limiterà, d’ora in avanti, ad armare e istruire in Siria soltanto i guerriglieri curdi.

Difficilmente questo atteggiamento non sarà condiviso dai sauditi e soprattutto dai turchi. Questi ultimi al contrario, proprio in funzione anticurda, hanno chiesto senza ottenerlo l’aiuto americano per stabilire nel nord della Siria, nei dintorni di Aleppo, una zona sotto il loro controllo garantita da un’interdizione al volo di ogni aereo straniero. Il loro scopo è esattamente di impedire, Isis o non Isis, che i peshmerga curdi riescano a realizzare una continuità territoriale da Kobane ad Aleppo e, magari, al mare. Erdogan ci ha provato perfino con gli europei, offrendo in cambio l’arresto o quantomeno la riduzione, del flusso di profughi che dalla Turchia si stanno riversando verso i nostri confini. Fortunatamente, una volta tanto, i nostri governanti hanno saputo non cedere al ricatto.

Se questo è il quadro, qual è il nostro, interesse?

Non certo in una continuazione indefinita dell’instabilità del paese né, tantomeno, una vittoria delle Stato Islamico. Ne’ lasciare che quell’area diventi campo d’azione per milizie islamiche (qualunque sia il loro sponsor) concorrenti tra loro a chi spara di più mentre grida più forte il nome di Allah.

Se, per ricreare stabilità e consentire un futuro pacifico confronto anche elettorale tra i cittadini siriani e le sue varie etnie è necessario negoziare anche con al-Assad e l’oligarchia che lo circonda, troviamo il coraggio di dircelo e accettarlo. Ribelli veramente “democratici” o “moderati” in Siria non se ne vedono e, se ci sono, restano oggi schiacciati e resi insignificanti dai gruppi più integralisti e meno “morali”.

Si sospendano dunque, da tutte le parti così come han fatto gli americani, gli aiuti ai vari gruppi sul campo e ci si limiti a sostenere chiunque combatta veramente contro l’Isis. E se qualche Stato “sponsor” continuerà a rifornire di fondi e di armi i gruppi che rifiutano un confronto ad ampio raggio lo si denunci e lo si isoli. Parallelamente, si convochi una nuova conferenza cui partecipino tutti i principali attori disponibili a farlo seriamente e si abbandonino al loro destino coloro che non vorranno parteciparvi.