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23 aprile 2016

 

 

A New York si firma. Ma è lunga la strada per passare dalle cerimonie alla pratica

di C. Alessandro Mauceri

 

Cinque mesi di tempo non sono bastati ai paesi firmatari dell’accordo di Parigi COP21 sulla riduzione delle emissioni per provvedere a un programma volto a contrastare l’aumento delle temperature medie e ad abbattere le emissioni nocive.

Dopo gli incontri del novembre 2015 in Francia, i responsabili dei paesi si sono incontrati di nuovo ieri a New York, nella giornata che celebra la Terra, per ratificare gli accordi sottoscritti. Ad oggi però l’accordo di Parigi sul clima è stato concretamente ratificato da 15 dei suoi 175 firmatari. Ad elencarli è stato il segretario generale Onu Ban Ki-moon: Barbados, Belize, Fiji, Grenada, Maldive, Marshall, Mauritius, Nauru, Palau, Saint Kitts and Nevis, Saint Lucia, Samoa, Somalia, Tuvalu e lo stato osservatore della Palestina.

Non bisogna dimenticare che gli accori sottoscritti a Parigi lo scorso anno perderanno ogni validità se a ratificarli non saranno almeno il 50 per cento dei paesi e il 50 per cento di quelli responsabili delle emissioni nocive.

L’Italia, ad esempio, nonostante la presenza e il discorso tenuto dal capo del governo Matteo Renzi (che ha comunicato l’intenzione di ratificarlo), non ha ancora detto quali saranno gli strumenti con cui intende farlo. Senza contare che in tutti i paesi sarà necessario, dopo la ratifica degli accordi, il via libera del Parlamento (come per India e Giappone), e che in altri serviranno nuove leggi. E senza di queste non saranno validi. I paesi che aderiscono all’Unione Europea, che è responsabile del 10 per cento delle emissioni, devono ancora ratificare l’accordo individualmente, senza contare che non si sono ancora accordati su in che mido verranno ridotte le emissioni.

Nonostante il segretario uscente delle Nazioni Unite abbia più volte sottolineato e si sia vantato della presenza massiccia di quasi tutti i paesi del mondo alla manifestazione, sono ancora troppo pochi i paesi che realmente si sono dati da fare.

Alcuni hanno promesso di fare qualcosa, ma non hanno rispettato le tempistica. “La Cina finalizzerà le sue procedure legali interne prima del G20 previsto a settembre a Hangzhou”, ha detto il vicepremier Zhang Gaoli.

“Esorto tutti i paesi a muoversi rapidamente per aderire all’accordo a livello nazionale in modo che l’accordo di Parigi possa entrare in vigore il più presto possibile”, ha detto il segretario generale Ban Ki-moon in occasione della cerimonia di apertura della manifestazione. Si tratta di un dato non secondario dato che la tempistica per la definizione delle iniziative previste dalle Nazioni Unite è abbastanza ristretta e saranno molti gli adempimenti da compiere.

Il 2 maggio, il segretario della Unfccc (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) dovrà pubblicare un rapporto contenente gli impegni sottoscritti dai che avranno ratificato l’accordo di Parigi (i “contributi nazionali”). Tre giorni dopo a Washington si svolgeranno degli incontri ai quali sono chiamati a partecipare i rappresentanti dei governi, del settore finanziario, degli affari, della società civile e dei ricercatori per concretizzare le azioni da compiere (“azioni per il clima 2016”). Dal 16 al 26 maggio a Bonn, in Germania, si svolgerà la prima riunione del gruppo di lavoro sull’accordo di Parigi e immediatamente dopo a Ise Shima, in Giappone, si terrà una riunione del G7 per definire le modalità per “guidare gli sforzi della comunità internazionale” per far fronte all’aumento delle temperature del pianeta.

Le misure da adottare non potranno prescindere dalle fonti energetiche da utilizzare. Per questo i primi di giugno a San Francisco si riuniranno i ministri dell’Energia. Alla fine del mese in Corea del Sud, a Songdo, verrà affrontato il problema di come finanziare questi interventi anche in considerazione degli impegni presi a Parigi di aiutare finanziariamente i paesi in via di sviluppo. Contemporaneamente a Pechino si riuniranno i ministri dell’Energia del G20 per parlare degli stessi problemi. Per fare il punto della situazione dal 3 al 5 luglio si terranno degli incontri a Berlino.

Subito dopo la pausa estiva, dal 19 al 26 settembre, di nuovo a New York, sono previsti gli incontri per la mobilitazione della società civile per il clima Climate Week Nyc. Immediatamente dopo, dal 26 al 28 settembre a Nantes, in Francia, si terrà una riunione di tutti gli attori “non pubblici” (ricercatori, organizzazioni non governative, sindacati e aziende) sui cambiamenti climatici (“Climate chance”). Dal 7 al 9 ottobre il tema ambiente darà di nuovo oggetto di dibattito nella riunione annuale del Fondo Monetario Internazionale e della banca mondiale a Washington.

I risultati di tutti questi incontri saranno alla base del COP22 di Marrakech, in Marocco, che si svolgerà dal 7 al 18 novembre 2016. In meno di un anno, migliaia e migliaia di persone gireranno su e giù per il mondo per decidere cosa fare per salvare il pianeta. Un vero e proprio tour de force.

Sempre che, ovviamente, entro i prossimi giorni i leader dei paesi che si sono riuniti a New York decidano di fare qualcosa concretamente.

Un dubbio, quello che hanno molti, che deriva dal fatto che dal 1995 (anno in cui si tenne la prima Conferenza delle parti della Convezione Onu sul climate change) ad oggi, sono stati pochi i successi e molti i fallimenti e gli accordi di comodo.

Ad esempio, come è stato per l’approvazione del protocollo di Kyoto, ovvero del primo trattato di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, gli Stati Uniti non si rifiutarono tassativamente di ratificare l’atto. Altri, sebbene lo avessero ratificato, decisero in seguito di cambiare idea: nel 2011, il Canada uscì dal Protocollo che pure aveva firmato davanti ai capi di stato e alle televisioni di tutto il pianeta. Lo stesso avvenne con il COP13, che si svolse a Bali: vennero tracciate delle linee guida e molti aderirono e ratificarono gli accordi, ma si concessero un tempo lunghissimo per trasformarli in realtà, undici anni!; cosa che, ovviamente, non avvenne.

Anche il nuovo protocollo di Kyoto, sottoscritto in Giappone nel 2012 in iccasione del COP15, non servì a molto. E quello di Copenhagen, che venne praticamente bloccato pochi mesi dopo la stipula, durante il vertice Onu in Danimarca. Pochi lo hanno ricordato, ma già allora, i capi di stato (compresi quelli di USA, Cina, India, Brasile e Sud Africa) avevano parlato della necessità di evitare il superamento della soglia dei 2° C nell’aumento delle temperature del pianeta.

I risultati dimostrano quanto siano stati rispettati quegli accordi: 15 milioni di africani sono ormai costretti alla fame a causa del Nino, mentre è notizia di oggi dei 150 morti dall’inizio del mese in India a causa dell’ondata di caldo anomala.

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