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marzo 4th, 2016

 

Le città e l’Antropocene

di Andrea Ghelfi

 

Testo scritto in occasione di “Vivere e sopravvivere in città”, un incontro organizzato il 15 Febbraio 2016 a Firenze dagli amici di Quinto Alto, a cui va il mio ringraziamento

 

Esistono dei laghi di uomini, le città, attori fisici nel sistema fisico della terra. Le città sono attori centrali dentro la natura globale, spazi nei quali le attività dell’uomo sempre più scolpiscono e ridisegnano i profili materiali, biologici, geologici e fisici del pianeta terra. L’umanità globale e la terra globale, i modi di vivere degli uomini urbanizzati e la vita di Gaia sono più che mai, nella nostra contemporaneità, legati.

La storia sociale, economica e politica ha da sempre messo in relazione i processi di inurbamento con un evento decisivo della nostra modernità, quale la rivoluzione industriale. Da qualche anno però di rivoluzione industriale non si occupano più solo gli scienziati sociali. A partire dalla rivoluzione industriale infatti, secondo il parere di diversi geologi, il nostro pianeta è entrato in una nuova epoca geologica. Tale epoca, definita Antropocene, rimpiazza l’Holocene, ovvero gli ultimi dieci millenni di storia naturale.

A partire dalla rivoluzione industriale infatti il modo di vivere degli umani è divenuta una nuova forza tellurica, capace di spostare e modificare masse di materia inimmaginabili nelle ere precedenti. Se è da sempre vero che non esiste storia umana che non sia anche storia naturale, a partire dall’Antropocene risulta impossibile scindere anche solo per un momento il modo di vivere degli umani e i loro effetti, sempre più significativi e incontrollabili, sulla vita di Gaia e dei suoi abitanti. Per la prima volta nella storia del pianeta i modi di vivere degli umani e di relazionarsi alle altre specie, costituisce la principale forza attiva dentro ai processi di trasformazione ambientale su scale globale, con una lunga serie di conseguenze sulla composizione biologica, chimica, geologica e climatica della terra. L’impatto di tale forza tellurica sta violentemente trasformando l’ ecologia globale: il cambiamento climatico, la sesta estinzione di massa e le tracce geologiche degli esperimenti nucleari sono solo alcuni dei segni irreversibili che testimoniano la presenza di tale forza.

E così la categoria di Antropocene circola e fluttua tra le scienze naturali e le scienze sociali, tra le scienze umane e il mondo delle produzioni artistiche, affettando il dibattito culturale e politico ben oltre i confini dell’accademia. La parola che studiosi come Paul J. Crutzen e Oswald Wilson utilizzano per designare la vita nella sua forma umana – e rispetto alle altre forme viventi – è specie. A molti l’anthropos dell’Antropocene però non piace. E del resto fare dell’umano una linea di analisi universalistica, ci ricordano molti degli studi attorno al nodo della soggettività che si sono sviluppati negli ultimi quarant’anni, comporta seri rischi. Ed allora diversi studiosi ci propongono un altra narrazione. Non la storia dell’umano, ma la storia del capitale – con le sue linee di classe, di colore e di genere, ci dicono i sostenitori della categoria di Capitalocene, possono spiegarci i tratti contemporanei dell’ecologia-mondo. Non siamo tutti implicati alla stesso modo. La specie non è una buona categoria a partire dalla quale guardare alla politica. Meglio ricondurre una analisi dell’ecologia mondo al sociale, o meglio alle relazioni di potere che si producono dentro al sociale. Questo, in estrema sintesi, è quello che sembrano suggerirci i teorici del Capitalocene.

L’era dell’umano e l’era del capitale. Io credo che entrambe queste narrazioni ci dicano qualcosa. E che valga la pena apprezzare quello che queste narrazioni ci permettono di vedere. Al contempo, credo che a fianco di una storia dell’eccezionalismo umano, e al fianco di una storia che guarda alle relazioni socio-materiali primariamente a partire da relazioni di potere, una terza storia possa essere raccontata. Una storia di fermentazione.

Un giorno, durante un corso di permacultura, la mia insegnante Saviana ci ha spiegato come fare il pane da lievito madre. Inizia a impastare, e mentre impasta ci racconta che non sono stati gli uomini a inventare la fermentazione. O meglio, che anche gli esseri umani sono l’ esito di un processo di fermentazione. Ed allora scopro che una parola che evoca la pizza o il piacere della fermentazione alcolica viene usata da diversi biologi per descrivere il metabolismo anaerobico, ovvero la produzione di energia da nutrienti senza la presenza di ossigeno. Seguendo gli argomenti della biologa Lynn Margulis la fermentazione batterica è emersa relativamente presto nella storia della terra, prima che l’ atmosfera avesse una sufficiente concentrazione di ossigeno per supportare l’ evoluzione di forme di vita aerobiche, cioè di forme di vita che si sviluppano in presenza di ossigeno. E dunque, solo dopo che i batteri sono stati per miliardi di anni gli unici abitanti della terra, trasformandone attivamente la superficie, i primi processi simbiotici tra la fermentazione batterica e i primi organismi monocellulari diedero vita alle prime cellule eucariote, da cui derivano funghi, piante ed animali. Il processo evolutivo che deriva da tale relazione simbiotica tra organismi monocellulari e fermentazione batterica è definito in biologia come simbiogenesi.

La fermentazione batterica giocò dunque un ruolo decisivo nel processo di co-evoluzione di tutte le specie: attraverso relazioni simbiotiche e processi co-evolutivi i batteri si sono fusi in altre forme di esistenza, generando altre forme di vita. Mentre impastiamo il pane o ci godiamo del buon vino, possiamo pensare a come non ci sarebbe modo di goderne senza la presenza attuale di relazioni simbiotiche e co-evolutive tra batteri e organismi multicellulari. La specie umana è il composto di molte specie, e noi non potremmo vivere senza la presenza di batteri nel nostro corpo. La nostra indigeneità batterica ci protegge e ci permette di funzionare in miliardi di modi. Non c’è vita senza la relazione tra differenti specie in coevoluzione, e non si danno processi di divenire senza processi molteplici di interdipendenza. La vita di un ente, come ci ricorda il filosofo Whitehead, non è separabile dalle sue interdipendenze.

Pensare la vita e l’evoluzione con questa storia di fermentazione ci porta lontano da ogni eccezionalismo umano, ma anche lontano da ogni distinzione tra ciò che siamo soliti definire come naturale – ad esempio l’ evoluzione di organismi pluricellulari – o come culturale, come ad esempio una pratica culinaria.

Non si dà fermentazione senza relazionalità ecologica. Ma tale relazionalità, nel bel mezzo delle trasformazioni tecnoscientifiche che caratterizzano la nostra era non può più essere pensata separando natura e cultura, il sociale dal materiale, l’umano dal non umano. Non esiste esperienza metropolitana, come non può esistere alcuna ecologia politica se non dentro all’ ibrida composizione del sociale, del materiale e del tecnologico.

Viviamo in un tempo in cui non è più possibile separare un ente che esiste o che viene ad esistere – sia esso un artefatto, un animale, una pianta, o un essere umano – dalle tante differenze che tale ente può fare in relazione alle altre esistenze a cui tale ente è connesso. Viviamo nel tempo dell’ecologia politica, un tempo nel quale la politica non è separabile dai processi di materializzazione che creano mondi, enti e forme di esistenza. Per questo l’ecologia politica può essere pensata come una politica della materia.

C’ è uno scritto di Foucault del 1982, che si chiama Il soggetto e il potere. Bene in questo scritto Foucault sviluppa questa tesi. Ci sono essenzialmente tre tipi di lotte, lotte contro stati di dominazione, lotte contro lo sfruttamento e lotte contro forme di assoggettamento.

Se ad esempio nel periodo feudale prevalgono le prime, e se le lotte contro lo sfruttamento contraddistinguono il diciannovesimo secolo, ci dice Foucault che il suo tempo è prevalentemente segnato da lotte che insistono sul rifiuto di certi tipi di individuazione, affermando il diritto ad essere differenti e inventando altri modi di vita e forme di esistenza.

Bene, credo che dopo più di trent’anni da questo scritto, stiamo assistendo all’emergere di un nuovo campo di intensità politica, costituito dalle pratiche ecologiche. Tale campo attraversa tanto i contesti metropolitani, quanto la campagna. E questo campo è costituito prima che da lotte visibili, da pratiche di trasformazione materiale. Da pratiche che modificano e trasformano entità ed ecologie. Più che la resistenza visibile al potere, questo insieme eterogeneo di pratiche mi sembrano insistere molto di più sulla finita e situata capacita di costruire alternative materiali e frammenti di buona vita, di coabitazione tra entità eterogenee. Sperimentando altri modi di costruire relazioni significanti tra artefatti, sostanze inorganiche e specie differenti questi movimenti compongono assemblaggi ben più complessi e articolati della divisione tra natura e cultura.

Dal farsi pienamente globale dei movimenti ecologisti, alle pratiche di solidarietà per il diritto alla salute, dal movimento dei makers fino alle fabbriche occupate, dai movimenti queer ai bio-hackers, un punto centrale dell’ecologia politica contemporanea sta a mio giudizio proprio nella sperimentazione di altri modi di relazione tra persone e persone, piante e artefatti, umani e suolo, tecnologie e umani, etcetera, etcetera.

Dunque se una politica costituente si riferisce prima di tutto alla capacità di praticare trasformazioni materiali, tale capacita di agire non può essere definita come un agency umana o come un universale da realizzare. Al contrario, tale politica della materia non è che una capacita di agire con, come ci ricorda tra le altre Donna Haraway, a partire da problemi specifici e contesti situati. Se pensiamo l’ecologia politica come una politica della materia la ritroviamo in una miriade di movimenti contemporanei che a partire da pratiche specifiche e da contesti eterogenei inventano altri modi di esistenza materiale, grazie alla sperimentazione di forme di interazione che coinvolgono la presenza attiva di entità umane e più che umane. Inventando modi di relazione tra elementi eterogenei, creando ecologie di esistenza abbastanza ricche e responsabili, abbastanza fitte e dense per poter coltivare prosperità mondane e il minimo di sofferenza possibile per tutti gli enti che le abitano, questi movimenti inventano pratiche del fare comune dentro a una politica del quotidiano.

Non di una storia prometeica abbiamo bisogno, in cui l’umano controlla la tecnica e la natura. Ma di territori che non possono che essere costruiti con forze ed entità più che umane. In una ecologia relazionale infatti interagire significa sempre agire con, essere trasportati, contaminati, ridefiniti dalla presenza attiva e dallo spessore di altri che hanno, per noi, significato. In questo contesto di pratiche il potere delle relazioni credo che non possa essere confuso con una intelligibilità politica nella quale ogni relazione è vista e analizzata in quanto relazione di potere. Perché le relazioni di potere e il potere delle relazioni non sono la stessa cosa. E la loro differenza conta nel definire tanto i tratti costituenti di una ontologia della relazione quanto nel coltivare una pratica quotidiana di connessioni parziali.

Pensare la politica attraverso i modi concreti attraverso cui diverse entità alterano loro stesse, questo mi sembra il compito di un ecologia politica che non rifiuti la dimensione tecnoscientifica che caratterizza il nostro tempo. Ma che semmai la reinventi.

Infatti, se le diverse traiettorie delle tecnoscienze creano nuove ontologie, nuovi mondi e nuove forme di vita, una politica alternativa della materia si riferisce direttamente alla pluralità degli interventi possibili in diversi contesti socio-ecologici: materializzando certe possibilità ontologiche piuttosto che altre, certe forme di vita piuttosto che altre. Perché per vivere e per sopravvivere nell’Anthropocene abbiamo bisogno di forme di attivismo che esprimano, qui ed ora, una concreta capacità di affettare trasformazioni materiali: di inventare e abitare forme di coesistenza alternative tra specie, sostanze inorganiche e artefatti. Se come ci ricorda il giovane Marx tutto ciò che esiste è materia, ogni attività trasformativa non è in fondo che una politica della materia.

 

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