Fonte: Corriere della Sera

25/08/2016

 

Terremoto: ricordiamoci, la terra ha un respiro

di Susanna Tamaro

 

Avrei dovuto accorgermi che qualcosa non andava, l’altro ieri sera vedendo i miei cani abbaiare inquieti sul prato, rifiutandosi di rientrare in casa per raggiungere le loro cucce. Come avrei dovuto allarmarmi quando, ormai già a letto, ho sentito la consueta sinfonia dei grilli e degli insetti notturni aumentare fortemente di tono, come una grande onda che, all’improvviso, si erge impetuosa nella notte.

Ho vissuto traumaticamente sulla mia pelle il terremoto del Friuli nel 1976 e da allora, essendomi poi trasferita nell’Italia centrale, non ne ho quasi perso uno. Quando ci fu quello dell’Irpina, nel 1980, ricordo che mi trovavo al decimo piano di un palazzo a Roma; vedendo oscillare impercettibilmente il lampadario, mi precipitai in strada prima ancora che le persone che erano con me potessero accorgersi di qualcosa. Cosa vietatissima, si sa, ma impossibile da non fare quando si è sopravvissuti ad un terremoto catastrofico come quello che avevo da poco sperimentato. Ho sentito poi anche con gran forza quelli della Val Nerina del 1979, dell’Umbria e delle Marche del 1997, dell’Aquila del 2009 e dell’Emilia Romagna del 2012, oltre a quello di pochi mesi fa a Castelgiorgio, che dista soli dieci chilometri da casa mia. Le forti scosse che hanno colpito il Reatino, svegliandomi nel cuore della notte, sono paragonabili, per intensità anche se non per durata, a quelle del Friuli. Non a caso sono le uniche due volte in cui gli animali — anche nel 1976 avevo un cane e un gatto — si sono accorti già da prima di quello che stava per accadere. Chi sopravvive a un terremoto devastante resta traumatizzato per sempre. Per questo, quando ho avuto la fortuna di poter costruire una casa mia, ho preteso che venissero applicati i più rigorosi criteri antisismici.

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Purtroppo però le zone colpite due notti fa — zone meravigliose che conosco e frequento da anni — sono per lo più costellate da case antiche, edificate con semplici pietre e mattoni, non molto diverse da quelle che crollarono in Friuli nel 1976. È bastata una scossa per farle andare giù come castelli di carta. La placca africana sta spingendo verso l’Europa, cozzando contro quella euroasiatica e il punto di accumulo di energia — capace di deformare la crosta terrestre — coincide proprio con la dorsale appenninica dell’Italia centrale. È per questa ragione che tutta l’edilizia di queste regioni dovrebbe essere — e per legge credo che ormai lo sia — antisismica. Per il futuro sarà di certo così, ma cosa fare con le costruzioni più vecchie, già esistenti? Tutti questi borghi meravigliosi — ormai abitati da poche persone — non sono molto diversi dalle casupole di legno e cartongesso con cui allestiamo il nostro presepe. Presepe che, non a caso, venne inventato da San Francesco proprio a Greccio, un paese della valle del Reatino.

Anche se ormai dormo sotto un tetto che, speriamo, non mi cadrà mai in testa, non posso non provare ad ogni nuova scossa un senso di panico atavico. Panico che mi ha accompagnata per molti mesi, se non per anni, dopo il terremoto del Friuli. «Tutto è vanità» verrebbe da dire come il Qoelet, «nient’altro che vanità» perché del «doman non v’è certezza». La fragilità, la morte — queste realtà ormai indicibili della nostra esistenza — ci compaiono all’improvviso davanti, quasi allegre, veloci, per dirci: «Via. È ora di andare». Ecco che sorge, allora, quell’attimo di rimpianto, quell’istante in cui ci si rende conto di aver fatto i conti senza l’oste, di aver vissuto sbadatamente, magari con svogliatezza o accidia, senza essere riusciti a provare gratitudine, sempre e comunque, per questo straordinario miracolo che si chiama vita.

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La natura, il cielo, la terra, le acque, sono infinitamente più forti di noi, delle nostre volontà, delle nostre ambizioni e presunzioni. Nel loro eterno gioco di violente e sotterranee energie considerano gli esseri umani non molto diversamente da come noi consideriamo le formiche. Un soffio, una scrollata, un’onda, e tutto è finito. «La terra ha un fiato» dice l’anziana protagonista di un mio racconto, Per voce sola. «Con noi sopra, respira il suo respiro quieto». Ma su questa armonia di respiro può inserirsi ad un tratto un sussulto, un singhiozzo, un’apnea. E di questo dovremmo essere sempre coscienti. Dovremmo ricordarci che la dignità più profonda delle nostre vite non ci giunge dalla forza, dal potere, dalla tecnica, ma dalla consapevolezza della nostra profonda fragilità.

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