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17 settembre 2016

Il tempo lungo del terremoto
di Flaminia Brasini e Delia Modonesi

Sì, certo, è in pochi istanti che i soffitti si accartocciano e travolgono le cose e tutta la vita che c’è intorno. E poi l’affanno di estrarre dai detriti chi ancora respira. Certo, questione di ore, a volte minuti. Eppure, sotto terra, il terremoto cresce e si prepara in tempi geologici, con forze gigantesche e lentissime. Non possiamo pensare di rispondere a quei tempi, a forze così grandi e profonde, solo con azioni rapide e soluzioni veloci, talvolta tanto veloci da rivelarsi pura propaganda. In che percentuale pesano, oggi, la pressione mediatica che impone l’immediatezza di un titolo rassicurante e le scandalose attese del passato (la gente del Belice ha atteso una casa per 46 anni) sulla realtà concreta di prospettive e soluzioni che affermino la sicurezza ma anche la dignità dell’esistenza delle comunità e delle persone colpite? L’elaborazione concettuale di un’indiscutibile emergenza non può cancellare la necessità di un lavoro in un tempo diverso, non deve diventare rimozione frettolosa e superficiale delle complessità che le macerie portano con sè. I terremoti non arrivano, ritornano. Il loro tempo è circolare. Alla luce di quanto sta accadendo, in questa serata del 26 ottobre, ci sembra utile condividere e far circolare nuovamente lo sguardo lungo sul terremoto che esprime questo articolo scritto per Comune poco più di un mese fa.

In pochi secondi una scossa di terremoto può sconvolgere la vita e l’aspetto di un paese. Un cambiamento drastico, brutale, istantaneo. Un terremoto può cancellare gran parte del nostro mondo e imporci di ripartire quasi da zero, per recuperare quanto perduto, al più presto. Vista così, alcune strade da percorrere possono sembrare obbligate, altre possono apparire logiche, rassicuranti. Ma forse in questo quadro manca qualcosa. Forse osservando meglio, potremmo eliminare alcune illusioni prospettiche. La prima distorsione nella nostra visione abituale riguarda il tempo del terremoto.
Una scossa dura pochi secondi: quel che accade spesso è così veloce da non darci modo di reagire opportunamente, di renderci conto chiaramente; in pochi secondi avviene qualcosa di assolutamente sconvolgente e totalmente “trasformante”. Però il tempo del terremoto non è quel che noi vediamo: sotto terra, il terremoto cresce e si prepara in moltissimi anni, in tempi geologici, con forze gigantesche e lentissime. Non possiamo pensare di rispondere a tempi così lunghi, forze così grandi, trasformazioni così profonde, con azioni rapide, soluzioni veloci, senza lunghe preparazioni. La prospettiva del nostro dialogo col terremoto non può che essere in tempi lunghi. L’idea delle soluzioni in emergenza è in parte obbligata (non si possono lasciare persone che hanno perso tutto in condizioni di difficoltà e vuoto!), ma non deve cancellare la necessità di un lavoro nel tempo, non deve diventare rimozione e fretta.
Riguardo al tempo del terremoto c’è un’altra caratteristica che a volte sembra sfuggirci: i terremoti non “arrivano”, i terremoti ritornano. Il tempo del terremoto è circolare. Dove un terremoto c’è già stato, lì ci sarà di nuovo. Il terremoto tornerà. Dopo il tempo necessario a riprepararsi, che non sappiamo quanto sarà e che per lo più sarà così lungo da far perdere memoria del terremoto precedente, il terremoto tornerà. Ma il fatto che i tempi lunghi ci facciano perdere memoria, non vuol dire che i terremoti del passato non siano esistiti. E se il tempo del terremoto è circolare, allora noi dovremmo provare a entrare nella sua ruota per dialogare con lui: dovremmo imparare a ricordare, a guardare le cicatrici che lascia e i segni che tramanda, a confrontarci giorno dopo giorno, a prepararci per il prossimo incontro.
Tempi lunghi, circolarità continua e “irregolare” (perché circolare non vuol dire che i terremoti hanno una “scadenza” esatta!): non siamo abituati a ragionare in questo modo sui terremoti, perché il dolore, il trauma, ci spingono a rispondere velocemente e poi rimuovere. Ma questa strada non può funzionare, perché il terremoto ha un suo carattere e dobbiamo farci i conti. Poi ci sono altre illusioni che sarebbe opportuno rimuovere. Prima fra tutte l’illusione della continuità: dopo uno sconvolgimento così doloroso e profondo com’è un terremoto, la tentazione di ricostruire tutto esattamente com’era, per dimenticare la sofferenza e la perdita, può essere forte. Ma è una tentazione che ci fa uscire dalla realtà (il cambiamento c’è stato, la perdita è irrimediabile) e ci rende difficile l’elaborazione e il ricordo. Inoltre il cambiamento, anche senza terremoto, è necessario e fisiologico: il terremoto ci costringe a un’evoluzione che dobbiamo provare a “governare”, facendoci tutte le domande che ci faremmo se il cambiamento l’avessimo indotto noi stessi.
Nel ricostruire dopo un terremoto dovrebbe essere normale chiedersi (come faremmo in qualsiasi altra ricostruzione): cosa c’era che non andava più bene (che non era più adatto, funzionale, “bello”) in quel che c’era prima? Cosa avrei voluto cambiare e cosa voglio cambiare? Come posso recuperare le cose che erano davvero importanti, costruire quelle che mancavano e tenere traccia della mia storia, incluso quest’ultimo evento?
Quel che per lo più succede ora, dopo un terremoto, è che nell’immediato si costruiscono strutture (che a volte permangono a lungo!) del tutto avulse dal corpo dell’abitato precedente, generando a volte un tessuto urbano frastagliato, sconvolto, confuso. Poi si pretende di ricostruire “com’era prima”, immaginando di cancellare non solo il cambiamento e le perdite, ma anche l’adattamento mentale e psicologico cui i cittadini hanno dovuto ricorrere per gestire la confusione del dopo. Per non parlare dell’idea di ricostruire “dov’era”, che può essere ancora più folle, perché a volte gli edifici cadono proprio perché erano costruiti nel posto sbagliato!
Possiamo lavorare per una continuità che conservi memoria nella trasformazione, ma non possiamo puntare all’immutabilità, per il semplice fatto che l’immutabilità non esiste. C’è un’altra illusione, un’altra tentazione che rischia di farci perdere di vista la realtà e la complessità: l’illusione dell’azzeramento del rischio. Nei tempi lunghi di cui parlavamo è bene lavorare alla riduzione del rischio, agendo sul contesto e con le persone: lavorare per rendere i luoghi in cui viviamo più sicuri e soprattutto lavorare continuamente nelle comunità, per aumentare consapevolezza, responsabilità, collaborazione, capacità di leggere il territorio e di prevenire e reagire. Ma nei tempi tesi e veloci dell’emergenza l’idea di ricostruire un contesto che guardi solo alla sicurezza, mettendola avanti ad ogni altra cosa e immaginando di poter regalare alle comunità una situazione “a rischio zero”, è non solo un’illusione, ma una prospettiva destinata a produrre seri danni. Innanzitutto perché azzerare il rischio non è possibile: ci confrontiamo continuamente con rischi di ogni genere e continueremo a farlo, sempre.
Possiamo lavorare per ridurre il rischio “oggettivo”, concentrandoci su un rischio specifico (quello sismico, ad esempio), ma non possiamo prescindere dalla necessità di imparare a confrontarci col rischio, con tutti i rischi con cui siamo continuamente chiamati a misurarci. Immagiamo, per paradosso, una comunità convinta di vivere in un ambiente in cui il rischio è stato azzerato, convinta che sia la tecnologia a proteggere gli esseri umani dai rischi: che capacità svilupperanno i cittadini di osservare, di analizzare, di scegliere? E che faranno quando incontreranno, come inevitabilmente capiterà, un pericolo?
È ovvio che nella ricostruzione dopo un terremoto si punti alla massima sicurezza, ma per farlo non è necessario né accettabile dimenticare dimensioni altrettanto importanti (la vivibilità, la bellezza, la felicità). L’ultima illusione che vogliamo sottolineare è l’illusione dei salvatori e dei salvati. È l’illusione più pericolosa, perché (a volte) nasce da sentimenti nobilissimi e assolutamente da coltivare: empatia, solidarietà, collaborazione. E nasce anche da una necessità: nell’emergenza servono persone capaci, competenti, per agire rapidamente e bene, per salvare vite, per valutare i danni e predisporre soluzioni. L’emergenza in Italia viene gestita bene; il sistema di Protezione Civile è efficiente e fa quel che va fatto. Ma la nostra cultura impone anche ai terremoti le sue regole, che non è detto siano le regole adatte. La nostra cultura prevede che, soprattutto in casi estremi, siano solo gli “esperti” a dover decidere ed agire, il che sarebbe anche ragionevole, se fra gli esperti si includessero coloro che “hanno fatto esperienza” di quel che si deve affrontare. La nostra cultura non prevede più reazioni e soluzioni “spirituali” e comunitarie, ma solo soluzioni personali, pratiche e dall’alto.
Cosa succede dopo un terremoto? Sul territorio e fra le persone colpite calano esperti, decisori, curatori, volontari che risolvono la situazione, assistendo le vittime. Il territorio, già sottratto ai suoi dal terremoto, viene ulteriormente allontanato, nascosto; le persone colpite diventano definitivamente vittime, passive, mentre altri risolvono per loro (e spesso sono le stesse persone colpite ad aspettarsi che qualcuno da fuori risolva per loro la situazione). Tralasciamo l’ipotesi di scelte sbagliate (quando non truffaldine) e concentriamoci solo sui ruoli che i diversi soggetti si trovano ad interpretare: come si può uscire da uno sconvolgimento così grande se non ci si misura con esso? Se non si mettono in campo le proprie risorse, se non ci si connette con i nostri amici-vicini e se non si riconquista il proprio territorio?
Un tempo c’erano riti e momenti codificati per questa riconquista di relazioni e spazi: processioni, assemblee. Oggi la dimensione “spirituale” è sostituita da quella psicologica, che però lavora troppo spesso per risolvere i traumi dei singoli. Ma la dimensione del terremoto non è singola, è collettiva: il terremoto colpisce le comunità e solo dalle comunità può essere affrontato, nei suoi aspetti pratici, come in quelli emotivi, psicologici e spirituali. D’altra parte, perché una comunità che fa esperienza di un terremoto possa essere protagonista delle scelte e della ricostruzione, questa comunità deve esistere, riconoscersi, sapersi muovere come comunità prima del terremoto e prima dell’emergenza, ma da noi su questo aspetto (la famosa resilienza!) non si lavora, né come forma di prevenzione né come nient’altro.
Quindi, nonostante l’emergenza e le sue indiscutibili necessità, nonostante il desiderio di risolvere in fretta per superare il dolore, nonostante quel che apparentemente ci sembra normale e logico fare, ci converrebbe guardare anche oltre, per non trovarci di nuovo, al tempo del prossimo terremoto, impreparati.


Flaminia Brasini e Delia Modonesi, ConUnGioco onlus, da molti anni si occupano di educazione per la riduzione del rischio. Girano l’Italia in lungo e in largo, dal Friuli alla Sicilia, per incontrare bambini, ragazzi, insegnanti e cittadini che si confrontano col terremoto. “Proponiamo strumenti di scoperta e condivisione per capire, elaborare e decidere insieme. Abbiamo lavorato a lungo con ragazzi e insegnanti delle scuole di L’Aquila nel post emergenza e di svariate scuole dei comuni colpiti dal terremoto dell’Emilia. Esperienze e persone da cui abbiamo imparato molto”.

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