Russeurope

https://aurorasito.wordpress.com/

13 novembre 2016

 

Putin da Monaco a Valdaj

di Jacques Sapir

Traduzione di Alessandro Lattanzio

 

Il lungo discorso di Putin alla conferenza del Forum Valdai a Krasnaja Poljana, a fine ottobre, riecheggia la famosa dichiarazione alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco nel 2007. All’epoca si volle vedere in quelle affermazioni non si sa quali echi da guerra fredda. In realtà, il discorso di Putin era concentrato sui principi comuni che le grandi potenze devono rispettare se vogliono cooperare. Ora il Presidente della Russia ha sempre, e in modo molto consistente, difeso la stessa posizione. Ne ha dato ulteriore prova nell’ultimo Forum di Valdaj [1].

 

Il contenuto del discorso di Monaco nel 2007

Il discorso del Presidente Vladimir Putin a Monaco di Baviera di febbraio 2007 fu un momento importante nelle relazioni internazionali. Va ancora analizzato con precisione [2], perché Putin è il leader politico che ha sicuramente impartito le lezioni più consistenti si ciò che accadde tra il 1991 e il 2005, vale a dire l’aborto del “secolo americano”, annunciato dopo il crollo dell’Unione Sovietica [3]. Si deduce l’importanza dei principi per l’organizzazione delle relazioni, secondo l’uguaglianza tra le nazioni. E’ un ritorno alle basi della politica di “Westfalia” che dominò le relazioni internazionali dal XVIII secolo. Questo ritorno si basava sull’osservazione della radicale differenza di valori esistenti in ogni Paese. Senza una base morale ed etica che rimuova la politica dalle relazioni internazionali, esse saranno gestite solo dal principio fondamentale del diritto internazionale, ossia la regola dell’unanimità e del rispetto della sovranità nazionale. Oppure, e questo è ciò che osserva e deplora il presidente russo, gli Stati Uniti tendono a trasformare il loro diritto in quello internazionale alternativo. S’è visto tale processo con le sanzioni imposte dagli Stati Uniti contro le istituzioni finanziarie (in particolare la Société Générale), semplicemente colpevoli di usare il dollaro in operazioni contrarie alle decisioni del governo di Stati Uniti d’America. Va ricordato che si trattava dell’embargo contro Iran e Cuba, e che tali istituzioni finanziarie non erano né statunitensi né coinvolgevano nelle operazioni filiali di quelle statunitensi. Ma oggi, anche in assenza di conseguenze dannose per una società statunitense, la FCPA s’è vista espandere in modo significativo l’applicazione a qualsiasi società ed individuo nel mondo, per via di un tenuo legame col territorio degli Stati Uniti, come una e-mail o una telefonata [4]. Con le sanzioni, gli Stati Uniti ampliano il proprio diritto nazionale a diritto internazionale. È quindi necessario leggere attentamente questo testo, che da una definizione precisa della visione russa delle relazioni internazionali. Due punti importanti emergono nel riconoscimento del fallimento del mondo unipolare e nella condanna del tentativo di sottoporre il diritto internazionale a quello anglo-statunitense: “Credo che il modello unipolare non solo sia inaccettabile per il mondo contemporaneo, ma anche del tutto impossibile. Non solo perché con un unico leader, il mondo contemporaneo (voglio sottolineare: contemporaneo) sarà privo di risorse militari-politiche ed economiche. Ma, e questo è ancora più importante, tale modello è inefficiente perché in alcun caso può essere base morale ed etica della civiltà moderna [5]“. Questo passaggio dimostra che la posizione russa articola due elementi distinti ma collegati. Il primo è il dubbio sulla capacità di un Paese (gli Stati Uniti, chiaramente menzionati) a raccogliere i mezzi per esercitare efficacemente la propria egemonia. È un argomento realistico. Anche la nazione più potente e più ricca da sola non può garantire la stabilità del mondo. Il piano degli Stati Uniti ne supera le forze. Ma c’è un secondo argomento, non meno importante e che si trova nello Stato di diritto. Non c’è un diritto su cui basare l’unipolarità. Nel libro del 2002, Evgenij Primakov non disse altro [6]. Questo non significa che i vari Paesi non possano identificare interessi comuni, o addirittura valori comuni. Il discorso di Putin non è “relativistico”, rileva semplicemente che questi valori (la “base morale ed etica”) non possono essere la base dell’unipolarità perché l’esercizio del potere, politico o economico, può definirsi in termini di valore, ma anche d’interesse. Il secondo punto segue il discorso e si esprime nel seguente paragrafo: “Assistiamo al disprezzo sempre più grave dei principi fondamentali del diritto internazionale. Inoltre, certi standard e, in effetti, quasi tutto il sistema di diritto di un solo Stato, naturalmente gli Stati Uniti, traboccano dai confini nazionali in tutti i campi dell’economia, politica e umanitario, imponendosi sugli altri Stati [7]“. Senza una base morale ed etica per rimuovere la politica dalle relazioni internazionali, vale a dire la contrapposizione amico/nemico, esse possono essere gestite solo dal principio fondamentale del diritto internazionale, ossia dal consenso unanime e dal rispetto della sovranità nazionale [8].

Nel discorso al Forum Valdai 2016, Putin ha ribadito le osservazioni su diritto e prassi degli Stati Uniti. Ma allarga la prospettiva e lo situa apertamente nel quadro strategico, “Se le potenze di oggi trovano un principio o standard a loro favorevole, costringono tutti a rispettarlo. Domani, se quelle stesse norme le ostacolano, saranno pronte a gettarle nella spazzatura, a dichiararle obsolete, e a decidere o a tentare d’imporre nuove regole. Così abbiamo visto la decisione di lanciare attacchi aerei nel centro dell’Europa, contro Belgrado, e poi contro l’Iraq e la Libia. Le operazioni in Afghanistan iniziarono senza la corrispondente decisione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Con il desiderio di cambiare l’equilibrio strategico in loro favore, questi Paesi hanno spezzato il quadro giuridico internazionale che vieta la diffusione di nuovi sistemi di difesa missilistica” [9]. Passa quindi al problema generale che viene ben identificato (la manipolazione delle norme) richiamandosi a situazioni specifiche. Questo gli permette di tracciare le lamentele della Russia nei confronti dei partner occidentali. Se il contenuto politico è lo stesso, il tono è decisamente cambiato tra il 2007 e il 2016. In realtà, Putin è un sostenitore della globalizzazione, ma realista, sapendo del bisogno di regole stabili, se ci si vuole sviluppare. Dice in un passaggio che, in realtà, anticipava la prima citazione: “Ma alcuni Paesi si considerano vincitori della guerra fredda, non si vedono semplicemente così, ma dicono apertamente di accontentarsi di trasformare l’ordine politico ed economico globale secondo i propri interessi. Nella loro euforia, hanno fondamentalmente abbandonato l’idea del dialogo e della sostanziale parità con gli altri attori della vita internazionale, hanno scelto non di migliorare o creare istituzioni universali, ma cercato invece di diffondere nel mondo le proprie organizzazioni, norme e regole. Hanno scelto la strada della globalizzazione e della sicurezza per i propri interessi, per alcuni ma non per tutti. Ma tale posizione non era accettabile per tutti” [10]. Infatti, Putin implica che, intossicati dal successo o dall’apparenza del successo, alcuni Paesi (e qui essenzialmente gli Stati Uniti) abbandonano il principio della parità, essenziale i principi del diritto internazionale. Questa è l’idea della globalizzazione come progetto politico di certuni, opponendosi alla globalizzazione vantaggiosa per tutti. Se possiamo condividere la considerazione, e si è scritto che la globalizzazione è un progetto politico degli Stati Uniti [11], tuttavia si può avere riserve sulla progettazione di una globalizzazione “vantaggiosa per tutti”. In altre parole, se possiamo condividere la valutazione di Putin sugli sviluppi nel contesto globale, si può anche mettere in dubbio la realtà di tale “globalizzazione per tutti”, che oppone alla situazione attuale. Infatti, se i Paesi estranei agli Stati Uniti hanno beneficiato della globalizzazione, è stato perché non rispettano le regole decise dagli Stati Uniti. Il fatto che i Paesi asiatici dalla maggiore crescita abbiano sistematicamente violato le regole della globalizzazione, decise e codificate da Banca Mondiale e FMI, viene sottolineata da Dani Rodrik [12]. In realtà, un’altra via stava emergendo, ma nel 1944, alla fine della guerra [13], fu cassata dal rifiuto degli Stati Uniti di ratificare il trattato dell’Avana. La Conferenza dell’Avana, tenutasi dal 21 novembre 1947 al 24 marzo 1948 [14], consentì la stesura di un testo che decise regole comuni per tutti i Paesi, secondo la logica della crescita e della lotta alla sottoccupazione. Così la presenza di misure protezionistiche veniva accettata e addirittura consolidata nel testo, promuovendo lo sviluppo delle industrie emergenti [15]. La Carta dell’Avana obbligava i membri a non avere posizioni predatorie autorizzando misure di salvaguardia negli altri Paesi e definendo un processo che portasse a standard di lavoro equi. La regole sul commercio, furono chiaramente determinate dagli obiettivi sociali ed economici interni. L’articolo 13 riconosce il diritto degli Stati membri di utilizzare le sovvenzioni pubbliche nei settori industriali ed agricoli, nonché misure protezionistiche. Di deve tornare a questo episodio, oggi in parte dimenticato, per capire che ci possono essere regole diverse da quelle della concorrenza, deus ex machina del commercio mondiale. Difendere questi principi implica difendere la sovranità degli Stati tanto contro la volontà di predominio di uno di essi, quanto contro quella delle grandi imprese private multinazionali.

Vladimir Putin e la sovranità

Sulla difesa della sovranità delle nazioni, Vladimir Putin vi arriva evocando il ruolo insormontabile delle Nazioni Unite. Dice a questo proposito: “Oggi, le Nazioni Unite continuano a rimanere un’organizzazione unica in termini di rappresentatività e universalità, un luogo unico per un dialogo equo. Le sue regole universali sono necessarie per integrare il maggior numero possibile di Paesi nello sviluppo economico e umanitario, garantendone la responsabilità politica e lavorando a coordinarne le azioni, preservandone sovranità e modelli di sviluppo. Non vi è dubbio che la sovranità sia il concetto centrale di tutto il sistema delle relazioni internazionali. Il suo rispetto e consolidamento contribuiranno a garantire pace e stabilità a livello nazionale e internazionale” [16]. Il riconoscimento del principio di sovranità è infatti un prerequisito per la creazione di un ordine internazionale equilibrato. Aveva anche ribadito, più avanti: “Spero davvero che sarà così, che il mondo diventi davvero più multipolare e che le opinioni di tutte le parti interessate della comunità internazionale siano considerate. Se un Paese è grande o piccolo, dovrebbe universalmente accettare le regole comuni che garantiscono sovranità e interessi del popolo” [17]. Ma questo principio di sovranità entra in contraddizione con la visione dominante della globalizzazione che sembra implicare regole emesse da organismi sovranazionali. L’esistenza di tali norme è infatti in contrasto con il principio di sovranità, che può certamente essere delegato ma che non può mai essere venduto. Pertanto, riferendoci al bilancio piuttosto cupo che Putin traccia della globalizzazione, riteniamo che la consideri avviata su una via sbagliata tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, ma aveva anche detto nel suo discorso: “le tensioni causate dai cambiamenti nella distribuzione dell’influenza economica e politica continuano a crescere. La diffidenza reciproca crea un fardello che riduce la nostra capacità di trovare risposte efficaci alle reali minacce e sfide che il mondo deve affrontare oggi. In sostanza, tutto il piano della globalizzazione è in crisi, e in Europa, come ben sappiamo, sentiamo voci che dicono ora come il multiculturalismo sia fallito. Penso che questa situazione sia per molti versi il risultato di scelte sbagliate, affrettate e, in una certa misura, di élite troppo sicure in certi Paesi, da un quarto di secolo. All’epoca, tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, c’era la possibilità non solo di accelerare il processo della globalizzazione, ma anche di darle una diversa qualità e renderla più armoniosa e sostenibile” [18]. Anche in questo caso, possiamo certamente condividere gran parte dell’asserzione. Ma questa osservazione viene presa senza alcuna analisi della situazione internazionale, in particolare del contesto ideologico. Per dirla in altre parole, manca al discorso di Vladimir Putin una critica dell’ideologia neoliberale in quanto dominata dalle sfere intellettuali ed economiche del mondo occidentale, nel periodo che descrive. Ora Vladimir Putin è pronto o può rompere con l’ideologia neoliberista? Non che sia un dogmatico. Al contrario, Putin ha dato provato molte volte di essere prima di tutto un pragmatico. Non un uomo senza principi, ma un uomo che non lascia che l’ideologia, una rappresentazione della realtà, scarti le necessità pragmatiche della sua posizione. Ma tale pragmatismo l’ha portato a trattare con i sostenitori del neoliberismo, che cercano di aprire l’economia russa ai flussi di capitale. C’è un limite nel riflesso innegabile in Putin che gli impedisce di completare la sua giusta critica della globalizzazione e dell’ideologia delle élite al potere nei Paesi occidentali.

Putin e la crisi delle democrazie occidentali

Poiché, e questo è senza dubbio la vera novità del discorso al Forum Valdai 2016, Vladimir Putin critica una regola fondamentale della politica dei Paesi occidentali, una critica che ad oggi, dopo l’elezione di Donald Trump alla Presidenza degli Stati Uniti, era preveggente. Cosa dice? Iniziava effettivamente facendo un bilancio sul funzionamento, o più precisamente, sulla disfunzione politica nei Paesi occidentali, “Sì, formalmente i Paesi moderni hanno tutti gli attributi della democrazia: elezioni, libertà di espressione, accesso alle informazioni, libertà di espressione. Ma anche nelle democrazie più avanzate la maggioranza dei cittadini non ha una reale influenza sul processo politico e alcuna influenza diretta ed effettiva sul potere. La gente sente un divario sempre crescente tra gli interessi propri e la visione che l’élite hanno sull’unica strada che ritengono corretta, la traiettoria che l’élite sceglie. Ne consegue che referendum ed elezioni sorprendono sempre più le autorità. Le persone non votano affatto come i media ufficiali e rispettabili consigliano, né come consigliano i grandi partiti. I movimenti pubblici, da tempo considerati troppo di sinistra o di destra, s’impongono al centro della scena mettendo da parte i pesi massimi. In un primo momento questi risultati problematici furono dichiarati subito anomalie o colpi di fortuna. Ma quando sono diventati più frequenti, s’iniziò a dire che la società non comprendeva più i vertice del potere, che non era matura abbastanza per poter valutare il lavoro delle autorità per il bene pubblico. Oppure costoro divenivano isterici parlando di conseguenze della propaganda straniera, di solito russa” [19]. Le descrizioni dei processi politici nei Paesi europei, con la molteplice negazione della democrazia che s’è vista (come nel caso del risultato del referendum sul Trattato costituzionale europeo del 2015) sono impeccabili. Inoltre, l’analisi dei meccanismi dell’autismo delle élite e delle loro frange mediatiche, questo nuovo tradimento dei chierici, è particolarmente vera [20] E’ questo recinto autistico ha impedito alle élite di vedere la Brexit nel Regno Unito o l’elezione di Donald Trump, e dopo il risultato del voto democratico, ha condotto parte di tali élite a cercare di mettere in discussione questi risultati. Oggi siamo in presenza di un nuovo cortocircuito, come scrisse nel 2005 Frédéric Lordon [21]. In quel libro denunciò più volte la chiusura autistica dal 2012, e quindi non sorprende vedere uno dei grandi leader mondiali arrivare alla stessa conclusione. Ma la cosa più interessante è l’analisi che Putin fa delle cause di questa situazione. Questa analisi non è nuova, ma è probabilmente la prima volta che viene espressa da un funzionario del rango di Vladimir Putin. Continua quindi: “Sembra che le élite non vedano l’ampliamento della stratificazione sociale e dell’erosione della classe media, mentre attua ideologie che ritengo distruttive per l’identità culturale e nazionale. E in alcuni casi, in certi Paesi, sovvertono gli interessi nazionali e rinunciano alla sovranità in cambio del favore del sovrano. Ciò pone la questione: chi è in realtà emarginato dalla società? La classe in ascesa dell’oligarchia sovranazionale e la burocrazia, che spesso non viene eletta né controllata dalla società, o la maggioranza dei cittadini, che vogliono cose semplici, stabilità, libero sviluppo del proprio Paese, prospettive di vita per sé e i propri figli, conservazione dell’identità culturale e, infine, sicurezza per sé e i propri cari” [22]. Qui il legame tra erosione della classe media (certamente il concetto di “classe media” è un concetto “morbido”), e più in generale delle classi popolari superiori, oggi vittime dell’instabilità economica e dell’insicurezza sia materiale che economico-culturale, e la volontà delle élite di monetizzare la loro posizione di potere con il “sovrano” internazionale. Questo descrive l’opposizione tra ciò che può essere considerata “élite globalizzata” (essenzialmente della finanza e dei media) e la “sovranità”, descrivendo l’opposizione della plebe ai ceti semiborghesi, di cui già parlai in un libro del 2006 [23]. Scrissi all’epoca, parlando della vittoria del ‘no’ nel referendum del 2005: “Il ‘no’ ha superato il 60% nel Nord industriale, nelle regioni industriali della Loira e del Centro e, infine, nelle regioni industriali indebolite del sud. Se aggiungiamo a queste regioni quelle dove il “no” ha superato il 55%, si traccia la mappa del lavoro della Francia. Al contrario, gli strati sociali connessi ai servizi globalizzati, comunicazione e finanza, hanno votato “sì”. I risultati dei sobborghi centro-occidentali parigini e di Parigi sono chiari a questo proposito. Osiamo quindi avanzare una formula: la vittoria del ‘no’ è quella della plebe contro i bobos (bohemien borghesi)” [24]. E’ questa borghesia, che si dice bohème (da qui la categoria dei “bobos”) non ha che valori oscillanti che, per via delle proprie ideologia e politica, si rivelano profondamente distruttivi. Il tecnocrate finanziario abbraccia sotto i riflettori dei media il sessantottino riciclato. Tra questi sostenitori del “sì” vi erano Pascal Lamy, direttore dell’OMC, dopo essere stato nella Commissione europea un sostenitore della globalizzazione, e Daniel Cohn-Bendit; una differenza che può essere dovuta a un capello (o sua assenza…)

Si constata che il discorso di Vladimir Putin dà un quadro importante e interessante del mondo visto dal Presidente della Russia. Naturalmente, questo testo è importante anche da ciò che non vi troviamo, un’articolata critica del neoliberismo e altro. Ma questo discorso è certamente un’analisi articolata dei mali nei Paesi occidentali e della gran parte del mondo. Questo discorso non è ottimista, ma Putin chiaramente approva la massima che Luigi XIV propose al Gran Delfino: “Attenzione alla speranza: la speranza è una cattiva guida“. Questo discorso coerente, e soprattutto la sua coerenza temporale, sono importanti. Ecco perché non possiamo che invitare tutti coloro che vogliono comprendere il mondo di oggi per trasformarlo, a leggerlo e capirlo.

 

Note

[1] Sputnik e Valdaj Club

[2] Vedasi la dichiarazione del presidente russo alla conferenza sulla sicurezza tenutasi a Monaco di Baviera il 10 febbraio 2007, il testo è stato tradotto su La Lettre Sentinel n° 43, marzo 2007.

[3] Sapir J., Il nuovo XXI secolo, Parigi, Le Seuil, 2009.

[4] Smith CF, e Brittany D. Parling, “L’imperialismo americano: l’esperienza di un praticante con l’applicazione extraterritoriale della FCPA“, University of Chicago Lefale Forum 237, p. 239 (2012); 15 USC && 78dd-1, 78dd-3.

[5] Vedasi La Lettre Sentinel, n° 43-44, gennaio-febbraio 2007, p. 25.

[6] E. Primakov, Mir Posle 11 Sentjabrja, op. cit., p. 138-151.

[7] La Lettre Sentinel, n° 43-44, gennaio-febbraio 2007, p. 25.

[8] Sapir J., Il nuovo XXI secolo, Parigi, Le Seuil, 2009.

[9] Traduzione dalla trascrizione inglese: “If the powers that be today find some standard or norm to their advantage, they force everyone else to comply. But if tomorrow these same standards get in their way, they are swift to throw them in the bin, declare them obsolete, and set or try to set new rules. Thus, we saw the decisions to launch airstrikes in the centre of Europe, against Belgrade, and then came Iraq, and then Libya. The operations in Afghanistan also started without the corresponding decision from the United Nations Security Council. In their desire to shift the strategic balance in their favour these countries broke apart the international legal framework that prohibited deployment of new missile defence systema“.

[10] “But some countries that saw themselves as victors in the Cold War, not just saw themselves this way but said it openly, took the course of simply reshaping the global political and economic order to fit their own interests. In their euphoria, they essentially abandoned substantive and equal dialogue with other actors in international life, chose not to improve or create universal institutions, and attempted instead to bring the entire world under the spread of their own organisations, norms and rules. They chose the road of globalisation and security for their own beloved selves, for the select few, and not for all. But far from everyone was ready to agree with this.”

[11] Sapir J., De-globalizzazione, Parigi, Le Seuil, 2011.

[12] D. Rodrik, “Cosa produce il successo economico?“, in R. French-Davis, La crescita economica con equità: Sfide per l’America Latina, Londra, Palgrave Macmillan, 2007. Vedi anche deòlo stesso autore, “Dopo il neoliberalismo, cosa?“, Project Syndicate, 2002.

[13] H.-J. Chang, Cattivi samaritani: Il Mito del libero scambio e la Storia segreta del capitalismo, New York, Random House, 2007.

[14] Graz J. C., L’origine del WTO: la Carta dell’Avana 1941-1950, Droz, Ginevra, 1999, p 367

[15] Avana

[16] “Today it is the United Nations that continues to remain an agency that is unparalleled in representativeness and universality, a unique venue for equitable dialogue. Its universal rules are necessary for including as many countries as possible in economic and humanitarian integration, guaranteeing their political responsibility and working to coordinate their actions while also preserving their sovereignty and development models. We have no doubt that sovereignty is the central notion of the entire system of international relations. Respect for it and its consolidation will help underwrite peace and stability both at the national and international levels“.

[17] “I certainly hope that this will be the case, that the world really will become more multipolar, and that the views of all actors in the international community will be taken into account. No matter whether a country is big or small, there should be universally accepted common rules that guarantee sovereignty and peoples’ interests“.

[18] “The tensions engendered by shifts in distribution of economic and political influence continue to grow. Mutual distrust creates a burden that narrows our possibilities for finding effective responses to the real threats and challenges facing the world today. Essentially, the entire globalisation project is in crisis today and in Europe, as we know well, we hear voices now saying that multiculturalism has failed. I think this situation is in many respects the result of mistaken, hasty and to some extent over-confident choices made by some countries’ elites a quarter-of-a-century ago. Back then, in the late 1980s-early 1990s, there was a chance not just to accelerate the globalisation process but also to give it a different quality and make it more harmonious and sustainable in nature“.

[19] “Yes, formally speaking, modern countries have all the attributes of democracy: Elections, freedom of speech, access to information, freedom of expression. But even in the most advanced democracies the majority of citizens have no real influence on the political process and no direct and real influence on power. People sense an ever-growing gap between their interests and the elite’s vision of the only correct course, a course the elite itself chooses. The result is that referendums and elections increasingly often create surprises for the authorities. People do not at all vote as the official and respectable media outlets advised them to, nor as the mainstream parties advised them to. Public movements that only recently were too far left or too far right are taking centre stage and pushing the political heavyweights aside. At first, these inconvenient results were hastily declared anomaly or chance. But when they became more frequent, people started saying that society does not understand those at the summit of power and has not yet matured sufficiently to be able to assess the authorities’ labour for the public good. Or they sink into hysteria and declare it the result of foreign, usually Russian, propaganda“.

[20] Benda J., Il tradimento dei chierici, rist., Paris, Grasset, coll. “Les Cahiers rouges”, 1990.

[21] F. Lordon, “La processione dei fulminanti” e “Un “cri de douleur” de Serge July, par le Collectif Les mots sont importants”, 1° giugno 2005  (accessibile dal sito Acrimed).

[22] “It seems as if the elites do not see the deepening stratification in society and the erosion of the middle class, while at the same time, they implant ideological ideas that, in my opinion, are destructive to cultural and national identity. And in certain cases, in some countries they subvert national interests and renounce sovereignty in exchange for the favour of the suzerain. This begs the question: who is actually the fringe? The expanding class of the supranational oligarchy and bureaucracy, which is in fact often not elected and not controlled by society, or the majority of citizens, who want simple and plain things – stability, free development of their countries, prospects for their lives and the lives of their children, preserving their cultural identity, and, finally, basic security for themselves and their loved ones.”

[23] Sapir J., La fine dell’euroliberalismo, Paris, Seuil, 2006.

[24] Sapir J., La fine dell’euroliberalismo, op.cit.

top