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20 dicembre 2016

 

La doxa antirussa

di Andrea Muratore

 

Nell’epoca della post-verità, lo storytelling dell’attualità si configura come l’attualità stessa: e di conseguenza la russofobia prende piede proprio perché Mosca non riesce a controbattere adeguatamente alle pressioni del sistema informativo occidentale.

 

Nei mesi in cui l’informazione occidentale tocca il suo punto più basso e le classi politiche dirigenti, ritrovatesi di fronte alla necessità di giustificare un decennio di governance più che fallimentare, riprende fortemente piede un modus operandi decisamente criticabile: si punta infatti ad addossare il maggior numero possibile di responsabilità per i fallimenti politici dell’élites occidentali su un presunto nemico esterno, individuato nella Russia di Vladimir Putin. Il secondo decennio del XXI secolo è stato infatti caratterizzato dal rinfocolamento di un fortissimo pregiudizio russofobo tanto negli Stati Uniti quanto in Europa. Le ultime settimane hanno portato all’apice questa tendenza che ha conosciuto una forte accelerazione a partire dalla crisi ucraina del 2014: il quasi contemporaneo svolgimento della fase risolutiva della battaglia di Aleppo in Siria e delle sorprendenti elezioni presidenziali vinte dal candidato “antisistema” Donald Trump, infatti, ha rappresentato l’occasione propizia per riversare sulla Russia un’ulteriore cascata di fango. Con la connivenza di buona parte dei decisori politici di massimo livello, infatti, i media stanno creando l’immagine di una Russia turbatrice dell’ordine mondiale, desiderosa di saziare il suo “espansionismo atavico” e nemica dei diritti umani. Gli stessi, non meglio vagheggiati, “diritti umani” che sono branditi come scimitarre da parte dell’Occidente solo nel momento in cui sono necessari a squalificare l’avversario politico di turno o per operare un rapidissimo lavaggio di coscienza nel momento in cui (Aleppo docet) vengono a galla le ipocrisie e il doppio gioco portati avanti impunemente per anni. E così nelle ultime settimane abbiamo assistito a un vero e proprio tiro al bersaglio sul Cremlino, dardeggiato da una serie di proiettili mefitici caricati a salve di pregiudizi e fake news. Si palesa la totale estraneità alla realtà di un sistema mediatico e di una classe politica superati dai decisivi eventi verificatisi in questo 2016 e incapaci di fare i conti con la realtà: dalle parole pronunciate dal giornalista italiano Corrado Formigli, che ha attaccato Alessandro Di Battista, favorevole alla rimozione delle sanzioni contro Mosca, reputandolo indirettamente fiancheggiatore del “macellaio Putin” alla recente risoluzione dell’Europarlamento che di fatto qualifica la Russia alla pari dell’ISIS come un nemico ideologico, “l’ennesima svendita dell’UE alla NATO” secondo il giornalista Fulvio Scaglione, articoli, dichiarazioni e provvedimenti politici hanno concorso a delineare un quadro completamente distorto della realtà.

 

L’operato degli “avvelenatori di pozzi” russofobi si palesa apertamente analizzando la controversia circa i presunti favoreggiamenti compiuti da hacker al soldo del Cremlino per sabotare la campagna presidenziale di Hillary Clinton e favorire la vittoria di Donald J. Trump nelle recenti elezioni statunitensi. Una ridicola schizofrenia sembra accompagnare ogni nuova, apparentemente sconcertante rivelazione circa l’operato degli 007 informatici russi dediti a sudare sette camicie per porre degli ostacoli insormontabili sulla campagna elettorale di Hillary Clinton: un articolo pubblicato lo scorso venerdì sul Guardian, infatti, destinato a riassumere tutto ciò che l’informazione e il mondo politico occidentale sanno sulle interferenze russe nelle elezioni americane non riportava alcun nome, non citava nessun sospettato, ma si limitava a ripetere una serie di noti cliché, per concludere affibbiando alla Russia l’etichetta di “Stato mafioso”. Le istituzioni statunitensi non hanno nel frattempo compiuto alcun passo per smorzare la tensione, né hanno fornito alcuna prova più approfondita dopo la conclusione delle “analisi” dei servizi segreti di Washington. In breve, con un tagliente articolo pubblicato sul suo sito Paul Craig Roberts ha denunciato le mistificazioni messe a punto dal sistema del governo e delle “presstitutes”, argomentando che la conseguenza della pressante demonizzazione dell’operato della Russia è una delegittimazione del Presidente eletto Donald J. Trump, testimoniante un palese rifiuto dei meccanismi democratici: la Russia, nel caso americano, è dunque il “nemico lontano” da colpire per indebolire l’avversario interno. L’intensa russofobia che negli ultimi anni ha contagiato l’Occidente, in ogni caso, si è sviluppata su un substrato profondo di luoghi comuni, pregiudizi e precedenti storici di fiammate di odio e timore contro la sua cultura ed il suo popolo. Il giornalista e storico svizzero Guy Mettan ha recentemente indagato in profondità le radici di questo pregiudizio duraturo e le sue ascendenze storiche in Russofobia – Mille anni di diffidenza, saggio uscito in Italia nel 2016, pubblicato da Sandro Teti Editore.

 

Nel suo lavoro, Mettan opera una profonda disanima della storia del sentimento russofobo occidentale, disarticolato nelle sue componenti fondamentali e vagliato nei diversi periodi storici in cui esso si è manifestato: sorprendenti, in particolare, sono i parallelismi tracciati dall’autore tra il sentimento attualmente sviluppatosi nel sistema informativo e nel mondo politico dell’Occidente e quello via via costituitosi in Gran Bretagna dal 1815 alla fine del XIX secolo, quando Londra e Mosca divennero acerrimi rivali sotto il profilo geopolitico nel corso del “Grande Gioco” magistralmente descritto da Peter Hopkirk. Allora come oggi, infatti, sono addossate alla Russia mire espansionistiche fuori luogo, e la demonizzazione del paese risulta funzionale ai decisori politici occidentali per l’imposizione di un’agenda programmatica che in esso individua il principale rivale geopolitico con l’acquiescenza dell’opinione pubblica. Se allora lo spauracchio russofobo instillò la paura del nemico orientale in una Gran Bretagna che tra la fine delle guerre napoleoniche e il 1900 ingrandì il proprio impero di circa venti volte, mentre al contempo i domini dello Zar si espansero di poco più del 25%, oggi ad essere accusata di aggressività ed espansionismo è una Russia che ha ritirato le proprie truppe a duemila chilometri da Berlino ma allo stesso tempo subisce il progressivo avvicinamento alle proprie frontiere di una NATO che, dall’Estonia alla Romania, dispiega le sue forze militari saldamente all’interno dell’area dell’ex Patto di Varsavia.

 

Mettan sottolinea a più riprese come il rinfocolamento del sentimento russofobo sia stato incitato dal rifiuto da parte di Mosca di uniformarsi al sistema dominante dopo il fallimento della “shock therapy” e delle riforme neoliberiste che condussero il paese allo sfacelo economico e sociale sul finire degli Anni Novanta. L’Occidente ha negato il diritto della Russia a ricostituire un’autonoma potenza e una personale sfera d’influenza, e ciò si è dimostrato in maniera drammatica nel contesto della crisi in Ucraina del 2014, affrontate dai media e dalla politica di Stati Uniti ed Europa con un’agghiacciante acriticità. Del resto, un rapido raffronto demografico ed economico basta a squalificare in maniera completa coloro che sbandierano in maniera ripetitiva i manifesti della “minaccia russa sull’Occidente”: oggigiorno, infatti, la Russia ha una popolazione di circa 145 milioni di abitanti, a fronte dei 319 degli Stati Uniti e dei 510 dell’Unione Europea. Il suo PIL, a parità di potere d’acquisto, è circa un decimo di quello complessivo dei suoi attuali avversari geopolitici, mentre la sua spesa militare è pari a circa 66 miliardi di dollari, a fronte dei 595 riversati da Washington nel Dipartimento della Difesa. Anche un confronto rapido e basato su dati basilari, in sostanza, definisce chiaramente come l’idea di una Russia atavicamente aggressiva ed espansionista, guidata da un leader desideroso di turbare in maniera continua i progetti dell’Occidente e mettere a repentaglio la sua sicurezza risulta assurda e al tempo stesso ridicola. Tale confronto dimensionale rende sicuramente l’idea dei successi geopolitici conseguiti da Mosca negli ultimi anni superando rapporti di forza notevolmente sfavorevoli, ma al tempo stesso è sufficientemente chiaro da mostrare come nei fatti una strategia simile a quella immaginata dall’élite politica e mediatica sarebbe, in primo luogo, deleteria per la Russia stessa.

 

La russofobia odierna si sviluppa non a partire dall’’oggettività e dalla realtà dei fatti, sistematicamente negata, ma sulla base delle debolezze di un Occidente che vede i limiti del suo sistema geopolitico ed economico evidenziati dalla definizione di un multipolarismo che mette in discussione l’universalità del suo modello. Del mondo multipolare la Russia rappresenta il soggetto simbolicamente più importante in quanto perennemente a cavallo tra l’Oriente e l’Occidente, che in essa riconosce il suo “doppio”, specchiandosi al suo interno e rifiutandosi di accettarne la diversità e la singolarità. Nell’epoca della post-verità, lo storytelling dell’attualità si configura come l’attualità stessa: e di conseguenza la russofobia prende piede proprio perché Mosca non riesce a controbattere adeguatamente alle pressioni del sistema informativo occidentale, capace di sfruttare a suo favore una debolezza già manifestata dalla Russia dopo la seconda guerra mondiale. Lo storytelling, parziale per definizione, nega l’oggettività e si presta allo sfruttamento di una realtà distorta: la post-verità, di conseguenza, rappresenta il miglior viatico per la russofobia sia nella aule dell’Europarlamento che nelle colonne, piene di resoconti parziali e ripetitivi, dei giornali mainstream.

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