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Venerdì 13 maggio 2016

 

L’Egitto degli scomparsi

Poi è toccato a Giulio

di Fabrizio Floris

 

Arresti, sparizioni, torture e uccisioni sono moneta corrente nell’egitto di al sisi. Se n’è discusso alla fiera del libro di torino. Il giornalista egiziano sharif abdul quddus: «il governo italiano sapeva di aver di fronte un regime balcanizzato, ma ha prevalso la logica degli interessi economici».

 

Il sequestro e l’uccisione del ricercatore italiano ventottenne Giulio Regeni (rapito il 25 gennaio al Cairo, il suo corpo ritrovato il 3 febbraio in un fossato lungo l’autostrada Cairo-Alessandria) è stato ed è motivo di tensioni tra Italia ed Egitto. Di questo fatto e del contesto in cui è avvenuto si è discusso ieri al Salone del Libro di Torino nella sezione “anime arabe”. Il convegno, “Desaparecidos/Mukhtafun. An old story in a new scenario”, ha messo a confronto il sociologo Stefano Allievi, il giornalista egiziano Sharif Abdul Quddus e Andrea Teti professore associato dell’Università di Aberdeen.

I mukhtafun (gli scomparsi) in Egitto si contano a centinaia. Ma, come ha sottolineato Quddus, testimone di ciò che accade nel suo paese, il caso Regeni ha due particolarità: innanzitutto è stato messo nel mirino un bianco occidentale; in secondo luogo «è stato rapito poi è stato torturato, ucciso e infine lo stato se n’è lavato le mani. Ciò incarna tutti i tipi di abuso che il regime impone agli egiziani. La singolarità è che Regeni ha subito contemporaneamente tutte le forme di repressione ed è raro che tutto questo accada a una sola persona».

Ancora Quddus: «Torture, arresti, sparizioni e uccisioni avvengono da anni a danno di palestinesi che tentano di attraversare il confine così come di migranti africani. La sparizione di Giulio Regeni ha catturato l’attenzione. Lasciatemi dire che il governo italiano non può fingere di scandalizzarsi, non è un atteggiamento genuino. Perché sapeva cosa succedeva in Egitto ed era a conoscenza delle sparizioni, ma teneva le informazioni nascoste per via degli interessi economici che legano i due paesi. Finché succedeva solo agli egiziani e ai migranti africani, poco male. Ma poi è toccato a Giulio».

Nel primo periodo del governo di Al Sisi si finiva in qualche carcere militare, oggi si muore direttamente. Non è una storia nuova, basta ricordarsi quanto avveniva in Argentina e in Cile, ma la situazione egiziana è più complessa: non si capisce chi è necessario non toccare per non morire. Siamo di fronte ad un regime asimmetrico, dove i movimenti interni non sono chiari, così come la catena del comando che porta a far sparire le voci scomode.

Infatti, prosegue Sharif Abdul Quddus, «non è un regime coerente, è un insieme di istituzioni balcanizzate che combattono tra loro: presidenza, intelligence, polizia e magistratura. Non c’è una gerarchia chiara per cui non si capisce nemmeno chi ha ordinato l’arresto». Nel 2015 l’Egitto è stato il secondo paese al mondo per numero di giornalisti in carcere: parlare è un crimine, scrivere è un crimine, fare ricerca è un crimine. Allora cosa si può fare? Secondo Sharif «essere presenti è già una forma di resistenza, mostrarsi, stare di fronte alle prigioni, ai tribunali».

 

Un buco nero

Come si possono fare ricerca e informazione in Egitto? Andare in Egitto significa andare a cercare guai? Secondo Stefano Allievi, sociologo dell’Università di Padova, la questione va posta diversamente: «Sono tanti i mestieri pericolosi. Il pericolo non sta nel luogo ma nel tema di cui ti occupi, degli interessi che vai a toccare solo perché cerchi di fare bene il tuo lavoro. Occuparsi di mafia è pericoloso, così come indagare gli interessi economici di certi gruppi, persino la religione è pericolosa. Eppure mai come adesso abbiamo bisogno di ricercatori perché non ne sappiamo a sufficienza di paesi come l’Egitto».

Concorda il docente universitario Andrea Teti, estensore della petizione “Verità e giustizia per Giulio Regeni”, firmata da oltre 5mila docenti universitari di tutto il mondo. «È fondamentale capire che tipo di regime è quello egiziano. Per poter cogliere pienamente che cosa significa, in termini etici, tollerare Al Sisi e anche per valutare se davvero possiamo affidare a un regime del genere i nostri i nostri interessi di sicurezza e stabilità nella regione». E conclude: «Il nuovo regime non offre soluzioni ai problemi economici, politici e sociali dell'Egitto; reprime ma la repressione è dimetralmente opposta alla stabilità e alla sicurezza. Dare manforte a un regime simile sgnifica minare ogni speranza di stabilità e di sicurezza, per non parlare di democrazia».

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