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3 giugno 2016

 

Terzo settore, un’occasione persa

di Giulio Marcon

 

Servizio civile e volontariato sono i due lati positivi di una legge il cui segno però è un altro: l’apertura del welfare ad una dimensione di mercato dominata delle imprese (sociali) e la creazione di una fondazione (la Fondazione Italia Sociale) come strumento centrale nel finanziamento del terzo settore

 

La legge delega sul terzo settore approvata definitivamente alla Camera qualche settimana fa non è una bella legge. Di positivo ci sono gli articoli sul servizio civile universale (legato al concetto di difesa non armata e con la possibilità per i giovani immigrati di accedervi) e sul ruolo del volontariato, parte che è stata inserita nel testo dopo le vigorose proteste delle associazioni dei volontari di fronte ad una prima versione della legge che aveva relegato il volontariato ai margini. Servizio civile e volontariato (anche se con diversi limiti) sono i due lati positivi di una legge il cui segno però è un altro: l’apertura del welfare ad una dimensione di mercato dominata delle imprese (sociali) e la creazione di una fondazione (la Fondazione Italia Sociale) come strumento centrale nel finanziamento del terzo settore.

La legge infatti apre la possibilità anche alle imprese profit (pure con alcuni limiti nella distribuzione degli utili) di gestire servizi nella sanità e nell’istruzione, utilizzando le agevolazioni del non profit, ma facendo profitti. La legge introduce per questa tipologia di organizzazioni la “remunerazione del capitale investito”, al pari delle tradizionali società commerciali. Si accentua così ancora di più il business della sanità e dell’istruzione, travestito da “finalità sociali”.

La Fondazione Italia Sociale non c’era nella prima versione della legge. E’ stata introdotta al Senato con una forzatura extraparlamentare sulla base di una proposta del finanziere Vincenzo Manes, consigliere per il sociale di Matteo Renzi. La Fondazione avrà un milione di euro di partenza (soldi pubblici) e si pone l’obiettivo di raccogliere i soldi dai privati (sponsor, fondazioni bancarie, ecc): si ipotizzano 50milioni di euro. Avrà un consiglio di amministrazione misto, con membri delle istituzioni pubbliche e altri nominati dai finanziatori privati: imprese, fondazioni, ecc. Si tratta di una sorta di privatizzazione della solidarietà sotto il controllo dello Stato.

Il combinato disposto di apertura del welfare alle imprese e di finanziamento privato del terzo settore ha il segno del disarmo della responsabilità pubblica sia rispetto all’offerta di servizi sociali come realizzazione di importanti diritti sociali, sia rispetto alla valorizzazione e al sostegno delle organizzazioni dei cittadini che si impegnano per la solidarietà. La solidarietà diventa oggetto di mercato ed il terzo settore diventa ostaggio della concorrenza economica e della disponibilità dei mecenati privati.

Si riduce così il terzo settore ad un ruolo parastatale (e ad essere stampella di un welfare in crisi) e lo si incita a diventare impresa e a competere nei cosiddetti mercati sociali. Non a caso l’ispiratore della Fondazione Italia Sociale invita il terzo settore a misurarsi con il social business. Su questa strada si spinge il settore a perdere le sue radici politiche e sociali e ad abbandonare la sua dimensione etica. In sostanza, il terzo settore -nella concretezza dei suoi interventi- viene invitato ad archiviare la sua caratteristica di soggetto critico, che si batte per la trasformazione sociale e contro le ingiustizie, per diventare mero soggetto gestore ed esecutore, subalterno al mercato e allo Stato.

Il terzo settore senza impronta etica, senza la denuncia sociale, senza ruolo di liberazione ed emancipazione, senza autonomia non è più terzo settore: diventa bricolage imprenditoriale del sociale, gamba residuale di uno stato sociale in crisi, gadget mediatico e strumento di marketing per il profit.

La responsabilità più grave della legge è di voler instradare il terzo settore proprio in questa direzione.

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