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9 agosto 2016

 

Normalizzazione quotidiana

di Haggia Lady

 

Siamo ormai da 5 giorni nel villaggio di Wadi Fukin (1.300 abitanti). Siamo passati tutti (io e i 9 ragazzi che lavoreranno con me al progetto di aiuto e condivisione con i contadini locali) dall’aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv, in modo tranquillo nonostante i severi controlli effettuati soprattutto nello scalo ad Istanbul. I ragazzi/e dicono ridendo che “siamo tutti tamponati” perché gli addetti ci hanno minuziosamente ispezionato, corpi, borse e bagagli a mano con piccoli quadrettini di tessuto imbevuti di sostanze che rilevano la presenza di cordite e altri agenti chimici pericolosi.

 

Le temute domande ed interrogatori sono state invece riservate soltanto alla ragazza di origine araba ma cittadina italiana che è anche lei passata ma con accurati controlli anche telefonici ed un colloquio di un’ora e mezza a Tel Aviv. Dopo una notte a Gerusalemme, che ho trovato affaccendata e laboriosa come sempre, ma molto meno frequentata dalle frotte di turisti che la ingorgavano negli scorsi anni in agosto, siamo partiti in bus alla volta di Betlemme, e dopo una spesa alimentare e telefonica abbiamo raggiunto il villaggio che dista circa 16 km dalla città del bambinello. Arrivando dalla strada locale (palestinese) abbiamo scoperto la rapidissima espansione delle colonie che circondano il paesino.

 

Parte prima

Spiego meglio: lo scorso anno, il primo del progetto che é nato localmente in agosto, avevamo già osservato e documentato la difficile situazione degli abitanti che vivono stretti tra l’enorme colonia di Betar Illit che ospita circa 40.000 coloni e il paese di Tsur Hadassa, che pur nascendo al di là della Green Line (l’elastico confine tra Israele e i territori occupati) sta espandendosi dentro la West Bank alla faccia del muro di separazione che, i partiti colonici di qui, non vogliono affatto che venga costruito. Lo scorso agosto era tutto un brulichio di scavatrici ed un tintinnio di esplosioni sulle colline che fanno corona alla fertile vallata. Oggi sulla terra spianata sorgono già decine di nuovi palazzoni riconoscibili dai preesistenti per il colore grigio del cemento grezzo e per la mancanza di scuri e porte. Sono tanti, e interrompono col colore anonimo la linea avorio e rossa degli edifici che sono ormai la linea dell’orizzonte per gli abitanti di Wadi Fukin. Le ultime costruzioni di Tsur Hadassa sono cosí vicine che, diciamo scherzando, c’è il rischio che si scontrino gli scuri nell’aprire le finestre!

Durante questi primi giorni nel paesino, abbiamo ovviamente parlato con gli amici palestinesi della situazione, ma invece che provocare le solite interminabili discussioni degli anni precedenti, l’argomento cadeva in un silenzio agghiacciante. Noi non abbiamo insistito, ma anche durante i tragitti nel paese i soliti “Shalom!” informativi lanciati dai ragazzini per capire se fossimo coloni avevano un tono più indagatorio che rabbioso rispetto agli anni passati.

La mattina alle 6 mentre andiamo nei campi degli amici agricoltori a lavorare, incontriamo lunghe file di palestinesi che salgono la collina per andare a lavorare, sicuramente in nero, negli insediamenti in costruzione. Sono silenziosi e incontrandoci abbassano lo sguardo. Occhi rassegnati e corpi vigorosi che avrebbero lavorato alla costruzione di nuove case sull’incessante rapina della loro terra di Palestina.

 

Parte seconda 2

Ho dormito male stanotte, dopo avere scritto dei nostri primi giorni al villaggio. Mi è sembrato di avere descritto una resa disperata degli abitanti di Wadi Fukin nei confronti dell’occupazione colonica. Nei giorni successivi passati tra la fatica dei campi ed i lauti pranzi nelle case degli amici palestinesi, ho affinato lo sguardo nei confronti dei comportamenti di chi vive in questa vallata fertile e generosa. La tranquilla normalità dei ritmi della campagna si contrappone al forsennato lavoro di costruzione dei nuovi alloggi nelle colonie e illustra chiaramente una furia predatoria che non conosce il tempo della terra e non rispetta ne ambiente ne colture. La scelta scellerata fatta dai coloni di sversare le acque nere di Betar Illit direttamente nella valle inquinandola irrimediabilmente, anzichè usare il previsto e già costruito impianto che le porterebbe al depuratore di Gerusalemme la dice lunga sul senso di responsabilità verso l’ambiente in cui i nuovi cittadini coloni si apprestano ad abitare, a loro dire, per i prossimi secoli.

Invece, la pazienza rassegnata che gli abitanti palestinesi praticano è impregnata di una saggezza antica che conosce e rispetta la propria terra, ne asseconda i ritmi e ne conserva la fertilità. Spesso osservando attentamente i gesti quotidiani degli agricoltori, che aspettano il tramonto per recarsi a dare acqua ai monconi degli ulivi tagliati dai coloni, per favorire un’utopistica ricrescita, mi nasce dentro un senso di dolce e quieta fiducia. Come se questo amore per ogni piccola pianta forse sarà ricambiato dalla natura stessa, che riconoscente sarà generosa e generatrice per quelle mani d’uomo che si intrufolano nelle sue pieghe piú nascoste e profonde.

Ecco tutto, ho fiducia nelle radici della Palestina, nonostante tutto.

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